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ricchezze de l’intelletto, onde il consiglio riman prigione de la superbia sua. Pure, non crediate che, se bene io era occupato da si strana còlerá, che in me fusse punto di mala volontá di vendetta. E mi parve tanto empio il caso che nel petto provocommi il corruccio, ch’io teneva vituperio il non corrucciarmi. Ma è in arbitrio di pochi, anzi di niuno, il potersi difendere dagli assalti datici da la libidine e da l’ira; onde è degno di perdono l’accidente de l’una e de l’altra passione.

Di Venezia, il 21 di novembre 1537.

CCXLII

A LA SIGNORA VERONICA GAMBARA

Invia il sonetto in morte della Morosina. Sarebbe, illustre donna, sodisfazzion vostra e onor mio che voi non mi chiedeste e che io non vi mandassi il sonetto de la morte de la donna di monsignor Bembo, oggimai vecchio in tutti i luoghi, perché voi non vedreste una ciancetta, né io per ciò mi acquistarci nuovo biasimo. Pure, io voglio piú tosto fastidirvi con esso che disubbidirvi senza esso. Si che eccolo inviato a la Signoria Vostra. Quella il legga e abrusci.

Di Venezia, il 21 di novembre 1537. Mentre ogni sacro stil rivolge il canto al voi c’ ha preso l’alma donna al cielo, spoglia ogni musa a le sue chiome il velo, e con esso del Bembo asciuga il pianto. Ed ella, lieta e a Dio cara tanto, tutta infiammata di superno zelo, a lui, ch’or suda ne l’estremo gelo, cosi a dir move in suon pietoso e santo: — Queta il duolo, o fedel, ché, se foss’io teco quassuso o dopo te salita, chi faceva immortale il nome mio? Sapea ch’era il tuo fin la mia partita; ma, per soverchio di gloria desio, ardii lasciarti quasi morto in vita. — /