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vostra, madama l’imperadrice, la cortesia de la quale ha deste le lingue di ciascun vertuoso a predicarne, e confessasi da tutti gli ingegni che ci son non pur degli Augusti, ma de le Auguste. Si che faccinsi inanzi i Maroni, e goderanno dei premi tanto esclamati da essi, come ne godo io, che vo’ vivere e morir servo di ambidue le Maestá loro. Intanto bascio le mani di Vostra Signoria illustrissima con ogni affetto.

Di Venezia, il 20 di agosto 1537.

CLXXV

AL SIGNOR GONZALO PERES

Sul medesimo argomento. Poiché i benefici, monsignore, ch’io ricevo da voi avanzano le mie speranze, voglio di ciò tacere, per meglio dimostrare la grandezza loro, la quale scemarebbe a parlarne, peroché il core non dá il modo di pagare i suoi debiti a la lingua, ed ella per se stessa è di niun credito. Si che il bene, che mi fate, senza ch’io lo comperi con i preghi, vi sodisfará egli con la volontá che tiene di poterlo fare. E io, che son fatto piú superbo che l’ambizione, poiché la Maestá d’isabella augusta, legandomi con le catene d’oro, m’ha fatto schiavo perpetuo de la sua liberalitá, solo vi dico che stiate saldo ne l’aiutare chi ne ha bisogno e chi lo merita; ché indubitatamente è piú diffícile il saper conservarsi in si ottimo proposito che il disponersi di fare operazioni sante. Bella cosa è il rilevare i caduti, ma bellissima il perseverar in ciò. E risolviamoci che chi può giovare a molti, e non giova a niuno, è degno di cambiar sorte con quegli di cui sprezzano la miseria. Ma, perché le parole sono l’ombra de le opere, delibero di venire a uno operare, nel quale prima il signor don Luigi Davila e poi la Signoria Vostra possa misurare la mia gratitudine.

Di Venezia, il 20 di agosto 1537. P. Aretino, Lettere - 1 . M