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CLXXIV

AL SIGNOR DON LUIGI LAVILA

Lodi, e ringraziamenti dei buoni uffici per avergli fatto ottenere dall’imperatrice Isabella una collana. Io, signore, fino a qui mi son dolto degli asini, che ministrano le borse e l’orecchie dei principi italiani, non per altro che per non aver mai il lor favore saputo né voluto procacciarmi la commoditá del vivere. Ma ora molto ben me ne lodo, perché, s’eglino il facevano, l’occasione del procacciarmela vi si toglieva; onde mi era forza, sendo io obligato a essaltare i vizi d’altri, tacere le vertú vostre. Ma, succedendo altrimenti, mi è stata gran felicitá, perché la mia penna ha serbata la lode per voi, piú degno di lode che lor di vitupero. E, mentre ne ringrazio Iddio, rivolgo tutte le mie speranze a Cesare e a la grazia che la fedel diligenza del vostro servire ha con la Maestá Sua, ché son certo che elle faranno frutto, come quelle che si pongono in Cristo: perché l’imperadore, de le cui domestichezze séte famigliare, partecipa di quel zelo di bontade che ebbe Egli, quando la divinitá sua si vesti di carne. E perciò è da lui essaltato fuor del credere e del potere umano. E beato voi, che avete si gran parte ne la sua altezza, da la qual deriva la consolazione di qualunche ricorre al mezzo vostro! Né solo io, ma la publica voce di tutta Italia lo testimonia, portandovi il nome sopra il capo. Ma qual piú bel vanto può darsi un signor di Spagna che d’essere adorato da quella nazione, che non deve amarlo? non perché non sia degno d’essere amato, ma perché i vinti sempre odiano i vincitori. Qual giovane, se non voi, ebbe mai illustri le vertú de l’animo come le bellezze del corpo? Certo, la natura monta al sommo de la sua potenza, quando forma una perfezzione qual si vede ne la delicata e valorosa persona vostra. Né può da si fatto candore di naturale eccellenza uscire se non effetti simili a quegli, con cui m’han consolato, mercé