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vostre. Onde ve ne rendiamo grazie di buon core, confessando il debito che ha il poco merito suo e mio con l’assai cortesia vostra. Forse un di potremmo sodisfarne parte: in questo mezzo ci offeriamo a voi. E, perché io ne son tenuto, dico al signor Girolamo, figliuol di Vostra Signoria, che ho sempre ne la mente quelle innate maniere con cui si insignorisce de l’altrui libertá nel modo che s’è insignorito de la mia.

Di Venezia, il 18 di maggio 1537.

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A CESARE

Lodi. La Maestá Vostra, soprano imperadore, è giunta a un termine che, se la grandezza del cielo fusse minore, o l’aguagliareste o ve gli apressareste; e il mondo, che la mesura, giudica smisurata la potenza di Carlo. E, a porre insieme ciò che mai foste e ciò che mai faceste, non arriva a quel che séte e a quel che fate, ancora che al vulgo paia che nulla siate e niente facciate. Poniamo da canto l’aver voi e preso il re, e fatto prigione il papa, e cacciati gli infedeli d’Ungheria, e nel vincer l’Affrica liberati diciottomillia cristiani da le catene, ed entrato nel core a la Francia con l’arme. Il miracolo, con che fate stupire e tremar le genti, è l’universo, che si move quasi tutto per farvi impotente, e favvi onnipotente, perché nei terribili suoi apparati appare il tremendo vostro potere. Ecco i milioni d’oro tratti de le viscere a la Gallia, ecco le turbe dei grisoni, ecco la moltitudine degli svizzeri, ecco le schiere dei taliani, ecco i cavalli infiniti, ecco le navi innumerabili, ed ecco il Turco. Ma che è e che sará? che fanno e che faranno? Mentre che essi minacciano contra de l’imperadore, il qual non si move e tiengli indietro, paiono i giganti stolti, che posero i monti sopra i monti, e Nembrotte che fece la torre, presumendosi di levare Iddio del seggio; il poter del quale, tacito in se stesso,