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Dionisio, Ercole e gli altri fatti simili agli iddíi per la via che voi dite. Ma ecco che questa stemprata volontá di sapere non si scorge in ognuno, benché l’anima sia di ugual vertú in tutti; e ciò procede dal muro del mortale, piú e meno gentile e rozzo. Quando Panime (che sono un lume di semplice divinitá e di pura bontade) entrano nei vasi prescrittigli dal Creatore, gli spirti predetti scoprono fuora il gran desiderio d’imparare piú e meno, quanto meno e piú traspare la magione chele rinchiude; e perciò l’anima dimostrò in Demostene altro effetto che non fece in Tersite. Or ridete de la mia salvatica filosofia, che perché ridiate ho scritto il fernetico, col quale m’ha fatto vaneggiare la profonda lettra, che per propria vostra cortesia avete inderizzata a me, che sono l’ombra de l’ombre di quegli che sanno. F., se pur la mia sorte m’avesse concesso che voi m’avesse conosciuto in presenza, come dimostrate di desiderare, avereste imparato solo a dire il vero; e a me saria piaciuto, perché non mi lodareste ora con la menzogna, lo non son degno non pur che si mova un uomo come voi per la conoscenza d’un par mio, ma che un tale pensi di pensarlo. Ma d’ogni mia vergogna è cagione messer Giulio Cesare, mio non meno che vostro figliuolo, col suo esser troppo amorevole. E cotale sua amorevolezza vi ha solamente detto la veritá in dirvi ch’io abbia laudatele composizioni vostre e ch’io vi reverisca: l’altre cose sono fiori che ornano la ghirlanda del ragionamento, che di me vi piacque pigliare. Ma io lo ringrazio, poiché per ciò il mio nome è posto ne la lingua e ne la penna del Pietrasanta, felice interprete degli inchiostri sacri. E da qui inanzi Vostra Signoria disponga di me, anzi di se stesso, poiché suo son diventato; e scrivami, ché gli scriverò con quello affetto che scrivo all’imperadore. Di Venezia, il n «li maggio 1537.