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Vostra Signoria le stanze dedicate a la Maestá d’isabella augusta. E, perché son chiaro del desiderio che avete di tórmi al tutto di mano al disagio, non parlo sopra ciò. Quanta allegrezza io abbia avuto de la grazia che ha racquistata il singular signor don Luigi Davila, non si può dire, e perciò non lo scrivo. Per Dio, che il suo generoso errore meritava d’esser punito da Cesare col subito perdono ! Perché è tanto possente e tanto pronto Paffetto, che move il cor di colui che ci ha sculpito dentro il signor suo, che a pena sente toccargli un pelo a l’onore, che la fede inviolabile, armata di giusto sdegno e accesa dal fuoco de Io sviscerato amore, occupa in modo la ragione e il rispetto, e in modo si insignorisce de la servitú circunspetta, che, sciolte le mani e la lingua, acecato da l’impeto, non può moderare lo stemprato furore de la affezzione. E perciò egli ne la camera cesarea trasse la spada contra colui che lo provocò. Insomma la clemenza de l’imperadore non ha mancato a la degnitá di se stessa, come ancor io non mancarò mai a quel che gli debbo per la caritá usatami. E giá sono entrato con lo stile mio nel pelago de l’opre sue; e, sollevato da la grandezza del subietto, spero farmi tale, qual debbe esser chi canta di lui, che è guardato dai cieli ne la maniera che guardò il castello del suo Milano l’onorato Massimiano Stampa, gloria de la fede e de la liberalitá italiana. La gentilezza di Sua Signoria m’è diventata soma, e mi parebbe alleggerire il peso, se vi degnaste ad acarezzarlo in mia vece, con dirle: — Bene avete fatto a far bene a l’Aretino, poiché egli se ne ricorda. — E, se non che si disconviene, direi che tanto stimo che facciate tale ufficio con il conte quanto l’ottenere da l’imperatrice una carta sua; ché la stimaria piú che i doni dei re.

Di Venezia, il 8 di aprile 1537.