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le monete mie. Molti rodamonti e molti gradassi son parsi Giovanni dei Medici; ma non sono stati. E cosi chi si sforza di doventar me, ne la fine non è pur lui. Anco sotto Milano bisognò che Vostra Signoria dicesse al duca del sonetto, con il quale non so chi tentò mordere il diamante del suo onore coi miei denti contrafatti. Al corpo di Cristo! che, se io pensassi che voi o altri, o cui prema tal ciancia, pendesse in creder ciò, senza niun rispetto con l’unghia degli inchiostri gli cavarei dal viso del nome gli occhi de la fama. Io sono uomo verace, e scrivo quel che mi par che sia; e son poltronarie il mandar fuora con la mia ombra le sciocchezze che freddamente vorrien calunniar gli uomini onorati. Or lasciate abbaiar chi abbaia; e, promettendovi de la mia vertú tutto quello che ella può, amate la servitú mia insieme con i cognati vostri, e farete ufficio di benigno signore.

Di Venezia, il 8 di ferraio 1537.

XCIX

AL VECER

É DI NAPOLI Loda don Pietro di Toledo e Carlo V, e allude all’uccisione di Alessandro de* Medici. Certamente, signore, non bisognarebbe che fusser men lucide l’opere vostre, a voler ch’io le vedessi. Questo dico, perché io son diventato si superbo per il favore che a me, che son nulla, ha fatto quello imperadore, che è il tutto, che non veggio con l’occhio de la servitú altro principe che voi. Ma saria ben cieco, ne lo splendor di qual sol si sia, chi non iscorgesse il lume che esce da le faccende, per cui gli uomini vi esaltano; onde mi converto in un desiderio, che vorria publicare in che modo io vi debbo onorare. E, quando per me piú non si possa mostrandovi il core, so che vi sodisfarete nel vedere sculpito ne la volontá sua l’istoria de la eleganza dei vostri giusti, clementi e religiosi andari, i quali danno cagione ad Augusto di ricovrarvi eternamente in mezzo al grembo de la sua grazia. E ben