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di voi, che per maggior ben ch’io ne speri. Andate, signore, in corte, ché certo la Spagna non vide mai sole piú chiaro de la fede osservata da l’integritá massimiana a l’Altezza cesarea. Qual è colui, a questi tempi pessimi, che non si fusse dato in preda dei denari, degli stati e dei favori, coi quali Francia vi ha combattuto l’orecchie? E che sarebbe, quando un gentiluomo avesse mancato a quello onore, che bene spesso disonorano fino ai re? E, se dove gioca il proprio interesse non si guarda né religion né fama, che biasimo o che novitá 6 il voler fidarsi altri d’altrui, come altrui d’altri? E chi non dubita de le promesse dei principi, non sa ciocché si sia dubbio. E perciò l’atto, che la fermezza de la servitú vostra ha dimostro a Carlo, è tanto piú da lodare quanto si usa meno; onde il mondo ve ne corona di lodi, perché d’oro deve coronarvene Augusto. E come può fare di non farlo, essendo egli senza inganno e non conosciuto da la ingratitudine? Né vi dolga il suo avervi fatto lasciare il castello, grado degno di voi, mentre il reggeste per compiacere a Sua Eccellenza, e non perché vi si convenisse d’esserne guardiano. Ed era pur troppo che tal fortezza fusse diventata prigione de le vostre grandezze, con la giunta di tenervi sempre occupata la sanitá de la persona con le sollecitudini de le solitudini. Consolativi, poiché, nel trarne il piede, liberaste Sua Maestá da la gelosia e Vostra Signoria da le cure; onde potete sicuramente comparirle inanzi con la fede trionfante ne la vostra fronte. E a me par l’ora mill’anni che vi ci conduciate, perché, chiaro de la possanza e de la gratitudine de la vertú mia, che brama sempre di onorarvi e di giovarvi, ritornando a Milano, avrò da voi quello che non ho potuto avere.

Di Venezia, il io di genaio 1537.