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de’ quali ha principio appunto dal secolo decimoterzo. Tale trasformazione non isfuggì per certo neppure agli antichi paleografi, ma non seppero valersene nel classificare le scritture; cosicchè può accettarsi, in questo senso, l’asserto di Carlo Milanesi: che la distinzione delle scritture in due periodi sia «imaginata felicemente da Natalis de Vailly»1. Quanto alle scritture nazionali, la paleografia oggi ne tiene conto, non più nella sua parte analitica, ma sì in quella che chiamerò storica: così hanno fatto il Vailly e il Milanesi; e così pare che proponga, nel suo prelodato libretto paleografico, Leone Gautier2.
Il metodo adottato dal signor Gloria corrisponde alle buone tradizioni della scuola italiana, e accetta in sostanza tutti i progressi della scienza che sopra ho accennati. Egli parte dal principio della derivazione d’ogni scrittura dalla romana; accenna, a titolo d’erudizione e non più, le denominazioni delle varie scritture nazionali; pone la durata di queste scritture dal vii al xiii secolo; e afferma infine la trasformazione che in detto secolo esse subirono, iniziandosi così il secondo periodo, impropriamente detto gotico ovvero scolastico (pagina 54-55). Viene poi all’esame pratico, per via d’esempi e raffronti, delle varie scritture, distinguendole in maiuscole, minuscole e corsive, e ciascuna di queste classi studiando per ordine cronologico diretto dal secolo v al secolo xv. Il metodo è indubbiamente semplicissimo; e più chiaro e meglio ordinato parrebbe, se Fautore si fosse contentato di riunire in poche regole generali tutte quelle minute osservazioni analitiche che ha disseminate su tanti piccoli brani di diplomi qua e là spigolati. Un tale metodo, utilissimo in iscuola, e da raccomandarsi com’esercizio pratico agli alunni, non è forse, a parer mio, il meglio opportuno in un trattato a stampa: il quale ha da essere una guida alla scienza, e avviare lo studioso da per sè nel campo delle osservazioni pratiche, che apparecchiate e fatte da altri non gli giovano a nulla.
Ma se il Gloria, in alcune parti del suo libro, può dirsi che pecchi per eccesso di praticità (lo che bensì non ismi-