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di scrivere nella propria lingua 339

non basta quello che dagli altri fu detto: è necessario formarsi talvolta come una nuova lingua; perché la espressione penetrando addentro nell’animo non sia, come altri disse,1 superficiale, perché si dia sfogo a quell’estro che ha invaso ed agita il poeta. Le quali cose pur sappiamo avre fatte i poeti latini non già in tempo che povera esser trovavasi la romana favella, ma quando sotto al dominio di Augusto pervenuta era al colmo della ricchezza. Per vie maggiormente animare i loro concetti hanno inventato di nuove parole, per dare alla espressione più vivacità e più mossa sonosi serviti di ellenismi come di più pronti atteggiamenti, e brillano a ogni verso metafore da esso loro formate quasi nuovi lampi d’ingegno. Ma qual cosa potranno fare coloro che si danno a poetare in una lingua ristretta dentro a’ confini che vi han posto gli antichi scrittori, che maneggiare non posson a lor talento, dove non è loro permesso niuno ardire, anzi hanno da temere del continuo di non mettere piede in fallo e si trovano esser sempre tra il Calepino e la grammatica, quasi direi tra l’ancudine e il martello? Sarà pur loro forza rintuzzare il proprio entusiasmo, porre i piedi nelle pedate altrui, accrescere la greggia degl’imitatori.

La moderna schiera in effetto de’ poeti latini, quelli eziandio che hanno il maggior grido tra noi, non meritano forse altro titolo

  1. Essays de Montaigne, Liv. III, chap. V.