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EPOCA TERZA. CAP. I. 107


riflessione isolata in mezzo a quell’immensa [1766] dissipazione di mente nella quale io viveva continuamente, veniva ad essere per l’appunto come si suol dire, una goccia di acqua nel mare. Fra le tante mie giovenili storture, di cui mi toccherà di arrossire in eterno, non annovererò certamente come l’ultima quella di essermi messo in Firenze ad imparare la lingua Inglese, nel breve soggiorno di un mese ch’io vi feci, da un maestruccio Inglese che vi era capitato; in vece di imparare dal vivo esempio dei beati Toscani a spiegarmi almeno senza barbarie nella loro divina lingua,ch’io balbettante stroppiava, ogni qualvolta me ne dovea prevalere. E perciò sfuggiva di parlarla,il più che poteva; stante che la vergogna di non saperla potea pur qualche cosa in me; ma vi potea pure assai meno che la infingardaggine del non volerla imparare. Con tutto ciò, io mi era subito ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile U Lombardo, o Francese, che sempre mi era spiaciuto moltissimo per quella sua magra articolazione, e per quella boccuccia che fanno le labbra di chi lo pronunzia,somiglianti in quell’atto moltissimo a quella risibile smorfia che fanno le Scimmie, allorché favellano. E ancora adesso, benché di codesto U, da cin-