Nessun mai credería che costui fosse
Un bambolone di quattr’anni appena,
Tai smisurate gigantesche ha l’osse.
D’ogni cibo a costui parte strapiena:
E beva, e mangi, e ben quadrato cresca;
Ch’ei pagherà poscia in sudor l’avena.
A Favorito anco è mestier molt’esca:
Questi è solo, e il calesse è il carro suo;
Bench’io tal volta ai maggior quattro il mesca.
Son Gentile ed Ardente un solo in duo:
Sì ben fattini ed appaiati sono,
Che dirian duo padroni: È il mio o il tuo?
A Gentile finora io ben perdono,
Ch’ei pur talvolta del tirar fa niego:
Non è malizia; e a giovinezza il dono.
Ai piè d’Ardente assai badar ti prego,
Ch’ei davanti non ha l’ugna ben salda.
Ponvi dentro, s’ei duolsi, aceto e sego.
Ecco l’ultima coppia, e la più calda;
Sincero e Docil, cui la bianca striscia
Segna la faccia amabilmente balda.
Vorrei tornasse a Docile ben liscia
La gamba ov’ebbe mal sì crudo e lungo:
Vedestil tu com’ora al carro ei sguiscia?
Guarito è omai: ma, quasi mezzo un fungo,
Un callucciaccio gli riman sul nerbo:
Se non cresce, si lasci infin ch’io giungo;
Chè a provarci l’unguento mi riserbo:
Ma, se la gamba umor novello insacca,
Si rifaccia quel bagno al naso acerbo,
Zolfo, allume, ed orina ma di vacca:
Giannin, già cuoco, il fa; ch’or di cucina,
Mercè i cavalli, non ne sa più un’acca.
Ecco, dell’una e mezza mia decina
Ti ho detto a parte a parte ogni magagna,
E data, com’io so, la medicina.
Se il Bianchi od altro nostro ti accompagna
In stalla, ivi a lor leggi il foglio mio,
Che non ben dal letame si scompagna:
Ma, s’ei rider vi fa, ben l’ho scritt’io.