Anton. E ingiusto il chiami? e tanto udir degg’io?
Deh! volgi i lumi, e il mio dolente stato,
cruda, se il puoi, a tuo piacer contempla;
contempla l’opra; e la mercé ne aspetta.
Non ti bastava adunque avermi servo?
* Vil mi volesti in faccia al mondo intero? —
Se non amor, ma crudel odio, in petto
serbavi a chi di troppo amor fu reo,
perché, barbara, almen non gliel dicesti?
Antonio allor, dell’ire tue ministro,
avrebbe ei stesso il rio furor saziato.
Ma poi vedermi a tale infamia, e tanta
da te serbato, e il tradimento insigne
dover soffrir... ah! quest’è troppo... indegna,
perfida, leggi in quell’istesso volto,
in cui prima scorgevi amore, e fede,
d’un’atroce vendetta il rio disegno.
Cleop. Ah mio signor, che dici? almen m’ascolta.
Ant. * Troppo, e piú che non merti io t’ascoltai:
* e allor che a questo vacillante core
* parlasti, lusinghiera, ingannatrice,
* in me tacque ogni affetto: e sordo in prima
* alla voce d’onor, tutto obbliando
* il patrio amor, la degna sposa, e il mondo,
* cui leggi avría donato, ozioso trassi
* fra gli infami tuoi laccj oscuri i giorni:
* e allor che scosso da sí reo letargo,
* dell’impero, e di Roma ancor riveggo
* nelle mie man la sorte, un’alma vile
* tenta rapirmi, con l’iniqua fuga,
* la non dubbia vittoria? ah! il vil son io.
* A che seguirti? Eran gli Egizj imbelli
* inutili alla pugna, e tu d’impaccio
* eri piú che d’aita, alla mia fama;...
* se disprezzarti un sol momento ardivo,
* il vincitor sarei: doppia la gloria
V. Alfieri, Tragedie postume. |
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