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atto primo 5
e alla sorte inegual dell’armi infide...

Serbar lo volli; e lo perdei fuggendo;...
vacilla il piè su questo inerme soglio;
e a disarmare il vincitor nemico,
altro piú non mi resta, che il mio pianto...
Tardi m’affliggo, e non cancella il pianto
un tanto error, anzi lo fa piú vile.
Ismene Regina, il tuo dolor desta pietade
in ogni cuor, ma la pietade è vana.
Rientra in te, rasciuga il pianto, e mira
con piú intrepido ciglio ogni sventura.
* Né soggiacer; ch’alma regale, è forza,
* si mostri ognor de’ mali suoi maggiore.
I mezzi adopra, che parran piú pronti
alla salute, od al riparo almeno
del regno tuo.
Cleop.   Mezzi non vedo, ignoto
della gran pugna essendo ancor l’evento;
né error novello, ai giá commessi errori
aggiunger so, finché mi sia palese.
D’Azio lasciai l’instabil mar coperto
* di navi, e d’armi, e d’aguerrita gente,
sí che l’onda in quel dí vermiglia, e tinta
di sangue fu, di Roma a danno, ed onta.
Era lo stuol, piú numeroso, e forte,
quel ch’Antonio reggea, e le sue navi,
* ergendo in mar li minaccievol rostri,
* parean schernir coll’ampia mole i legni
* piccioli, e frali del nemico altero;
sí, questo è ver; ma avea la sorte, e i Numi
da gran tempo per lui Augusto amici;
* e chi amici non gli ha, gli sfida invano.
Or che d’Antonio la fortuna è stanca,
or che d’Augusto mal conosco i sensi,
or che, tremante, inutil voti io formo,
né so per chi; della futura sorte