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atto primo 67
Io men di te non odio Agide altero;

e la sua pompa di virtudi antiche,
finta in biasmo di noi. Sparta ridurre
qual giá la fea Licurgo, è al par crudele,
che ambizíosa stolidezza: è tale
pure il disegno suo; quindi ebbe ei quasi
la cittá nostra all’ultimo ridotta:
e, sconvolta pur anco, in risse e affanni
egra ella sta. Ma, van cangiando i tempi:
quei traditori, efori allor, che schiavi
eran d’Agesiláo, piú a lui venduti
che ad Agide, con esso ora sbanditi
son tutti, o spenti; e sta in noi soli Sparta.
Ma il popol rio, mendico, e ognor di nuove
cose voglioso, Agide ancora elegge
mezzo a sue mire ingiuste. A schietta forza,
mal frenare il potremmo; ogni novello
governo erra adoprandola. Deluso,
pria che sforzato, il popol sia. Tal cura,
che a cor mi sta non men che a te, mi lascia.
Ecco la madre d’Agide: gran donna
ogni dí piú degli Spartani in core
si fa costei: temer si debbe anch’ella.


SCENA SECONDA

Agesistrata, Leonida, Anfare.

Agesis. Chi ne’ miei passi trovo? oh! mentre io vado

di Sparta al re, cui sacro asil racchiude,
quí intorno io veggo irsi aggirando or l’altro
re di Sparta novello?
Leon.   E il fero giorno,
ch’io, re di Sparta, esul di Sparta usciva,
ebbi al mondo un asilo? Assai gran tempo
dal trono io vissi in bando; e reo, ch’è il peggio,