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sceneggiatura 385

dice che due o tre versi per volta, per interrogare e far dire dal personaggio primario ciò che lo spettatore dee pur necessariamente sapere; costui soggiunge poi con cinque o sei altri versi di triviali e freddi consigli, allorché ha saputo dall’altro ciò che egli dovea giá saper molto prima, essendogli per lo piú intrinseco e famigliare. Codesto subalterno si affatica quanto può in nome dell’autore per simulare una calda commozione delle cose ascoltate; ma egli non ci riesce quasi mai, e mai non trasfonde per propria virtú negli spettatori quel calore ch’egli non ha, né può avere in se stesso. Queste o simili scene sono tuttavia le sole, che in una tragedia possano riempire le veci dei soliloquj.

Aggiungerò, quanto all’inverisimile di questi, che io, senza esser persona tragica, mosso il piú delle volte da passioncelle non degne del coturno per certo, tuttavia parlo spessissimo con me stesso; e molte altre volte, ancorché io non favelli con bocca, parlo con la mente, e perfino dialogizzo idealmente con altri. Quanto piú dunque potrá una tal cosa accadere a chi da una terribile e continua passione sia mosso? Un uomo che medita di ucciderne un altro, non parlerá egli del dove, del come, del quando? Ed anzi, chi non vede che ogni uomo che medita una importante terribile impresa, per esser atto ad eseguirla, dee per lo piú trattarne e combinarla in se stesso, e non affidarsi in nessuno giammai, fuorché in colui che dalla stessa sua passione travagliato sia non meno di lui? Ora, tale non può mai essere, né parere un personaggio subalterno ad un primario appassionato, ove questi uno stolto non sia.

I soliloquj in queste tragedie non eccedono quasi mai trenta versi, e sono spesso di venti, di quindici, di dieci, e anche meno. Per quanto io gli abbia esaminati, non me n’è caduto nessuno sott’occhio, di cui l’autore non ne potesse render ragione; ma non sono con tutto ciò talmente innestati nell’intreccio dell’azione, che l’autore, volendo, non avesse potuto non ce gli porre, e trasfondergli in altre scene. Molte e forse troppe delle presenti tragedie cominciano con un soliloquio; ma egli è brevissimo sempre, e recitato sempre da uno dei personaggi primarj; in esso è racchiuso, non per via di narrazione, ma per via di passione, tutto il soggetto della tragedia: e in oltre, quel personaggio dice in quel suo soliloquio tali cose, che discretamente egli non potrebbe mai dire a nessuno. Ed esemplificando, mi sará facile di provar l’asserzione.

 V. Alfieri, Tragedie — III. 25