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156 sofonisba
tu dei, col sopravvivermi: ed in nome

della tua fama, a te il comando io prima.
Vergogna or fora a te il morir; che solo
vi ti trarrebbe amore: a me vergogna
il viver fora, a cui potria sforzarme
il solo amore. È necessario, il sai,
il mio morire: a me il giurasti; e ancora
sariami grato di tua man tal dono:
ma non puoi tormel tu, per quanto il nieghi.
In questo luogo, al campo in faccia, in muto
immobil atto, ancor tre giorni interi
ch’io aggiunga a questo, in cui né d’acqua un sorso
libai, vittoria a me daran di Roma.
Vedi s’è in te pietá, cosí lasciarmi
a morte lunga, allor che breve e degna
giurasti procacciarmela... Ahi me stolta!
che in te solo affidandomi, quí venni...
Massin. Tu dunque hai fermo il morir nostro...
Sofon.   Il mio.
Se insano tu, contro a mia voglia espressa,
l’arme in te volgi; odi or minaccia fera,
e l’affronta, se ardisci; io viva in Roma
trarre mi lascio, e di mia infamia a parte
il tuo nome porrò... Deh! pria che rieda
a noi Scipione, in libertade appieno
tornami or tu; se non sei tu spergiuro.
Massin. Che chiedi?... oh ciel! Del brando mio non posso
armar tua mano... Incerto il colpo...
Sofon.   Il brando
vuol mano, è ver, usa a trattarlo. Un nappo
di velen ratto al femminil mio ardire
meglio confassi. Il tuo fedel Guludda
vegg’io non lungi; ei per te stesso il reca
sempre con se: chiamalo; il voglio.
Massin.   — Oh giorno! —
Guludda, a me quel nappo. — Or va, mi aspetta