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atto terzo 139
or che mi è dato al fine aprir miei sensi

al primier dei Romani. Intender tutti
i misti affetti, a cui mio core è in preda,
tu solo il puoi, che cittadino ed uomo
del par sei sommo. — A chi in Cartagin culla
ebbe, non men che a chi sul Tebro nacque,
la patria sta, sovra ogni cosa al mondo,
fitta nell’alma. In me, bench’io pur donna,
femminili pensier non ebber loco,
se non secondo. Amai chi meglio odiava
voi, superbi Romani. Un dí nemico
era a voi Massinissa; e al suono allora
di sue guerriere giovanili imprese
io m’accendea. Siface, allor di Roma
era, non so se ligio, o amico. — Or questi
son gli ultimi miei detti: a Scipio parlo,
e a te Siface: il simular non giova;
che il cor dell’uom voi conoscete entrambi. —
Dei primi nostri affetti assai profonde
in noi rimangon l’orme: udendo io quindi,
che l’ucciso Siface intera palma
dava ai Romani; e Massinissa a un tempo
occorrendomi agli occhi; in mio pensiero
disegno io fei (forse il dettava il core)
di distorlo da Roma, e di lui scudo
a Cartagine fare, e a me. Nemica
quí fra l’aquile vostre io dunque or venni:
e l’alta speme, che in mio cor s’è fitta
di ribellarvi Massinissa, in bando
fatto m’ha porre assai riguardi; io ’l sento;
e colpevol men taccio; e ad alta ammenda
son presta io giá. Forse, con possa ignota,
mi strascinava ver voi la mia sorte
a dar di me non basso un saggio: ed ecco,
campo or mi s’apre a dimostrare a Roma,
qual alma ha in sen donna in Cartagin nata.