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atto terzo 137
chiaro valor, toglierlo a Roma, e farlo

di Cartagine scudo ebb’io disegno.
Ma, Siface respira? al suo destino,
qual ch’ei lo elegga, inseparabil io
compagna riedo, e non del tutto indegna.
Siface L’alto proposto tuo, grande è sollievo
a re infelice, e a non amato sposo;
ma ad un amante oltre ogni dire ardente,
qual io ti sono, ei fia supplizio estremo.
Giá da gran tempo entro al mio core ho fermo
il mio destin, cui mai divider meco,
no, mai non dei. Preghi e comandi ascolta,
donna, or dunque da me... Ma Scipio a noi
veggio venirne: a lui soltanto al mondo
bramo indrizzar gli ultimi accenti miei.


SCENA TERZA

Scipione, Sofonisba, Siface.

Siface Odimi, o Scipio. — Innanzi a te, sparisce

il simulare; innanzi a te, di niuna
mia debolezza il vergognarmi è dato:
tu, benché niuna in tuo gran cor ne alberghi,
grande qual sei, tutte in altrui le intendi,
e umanamente le compiangi. — È questa,
(mirala or ben) la cagion prima è questa
d’ogni mio danno; e in lei pur sola io posi
ogni mio affetto. Non mi hai visto ancora
tremar per me; per altri or scendo ai preghi;
a forza io ’l fo...
Sofon.   Non per la figlia al certo
di Asdrúbal preghi   Al par di te, secura
fors’io non sto? — Che puoi Scipion, tu farmi?
Nata in Cartagin io, nemica a Roma,