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atto secondo 131
sará mia sposa Sofonisba; io ’l giuro.

E se protrar col viver suo Siface
vuol la sua infamia, e il dolor mio, me debbe
ei stesso quí, di propria man, col suo
brando svenarmi; o per mia man svenato
ei cader oggi.
Scip.   È prigioniero, è inerme
fra noi Siface; e a Massinissa in core
vil pensiero non cape. — Or, tu vaneggi;
ma certo io son, che se al tuo sguardo occorre
quell’infelice re, tu, generoso,
dall’insultarlo lungi, ah! sí, tu primo
ne sentirai pietá. — Ma, posto ancora
che in modo alcun, sia qual si voglia, spento
Siface cada, e possessor tranquillo
quindi sii tu di Sofonisba; a quale
partito allor pensi appigliarti?
Massin.   — A Roma,
e al mio Scipione eternamente avvinto,
nulla mi può...
Scip.   Ma, piú di Roma, or dimmi,
Sofonisba non ami?
Massin.   — Io?... Ciò non voglio
saper, per ora.
Scip.   Oh sfortunato amico!
Io giá ’l so, pria di te. So, che posposto
l’util tuo vero, e la ragione, e i sacri
di gratitudin, d’amistá, di fede
severi nomi, a rio destino in preda
precipitar ti vuoi. Non puossi a lungo
al fianco aver d’Asdrubale la figlia,
e rimaner di Roma amico, e farsi
distruttor di Cartagine. Compiango
caldamente tua sorte. Ai re nemici
di Roma, il sai, qual fera sorte avvenga,
o tosto, o tardi. I detti miei non sono