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atto quinto 111
d’amor ben altro ad essi e a me tu dai,

se a lor ti serbi in vita. Ancor può molto,
piú che nol pensi, il pianger tuo: la plebe,
se Leonida no, pietade avranne;
e senza spander sangue, a lei fia lieve
porre in salvo i miei figli. In somma, pensa,
che, te viva, non muore Agide intero.
In volgar donna ammirerei, qual prova
d’amore immenso e di valor sublime,
il non voler sorvivere al consorte;
ma da te spero, e da te chieggio, e il dei
d’Agide moglie, ad infelice vita
tu dei serbarti, intrepida, pe’ figli...
Piangendo io ’l chieggo; e ti rimanga in core
questo mio pianto... Ah! per te sola al fine,
e pe’ fanciulli nostri, Agide hai visto
lagrimar oggi.
Agiz.   Irrevocabil dunque
fia il tuo morir?...
Agide   La mia innocenza è certa. —
Prendi l’ultimo amplesso; e ai cari pegni
recalo, in nome mio. Di’ lor, ch’io moro
per la patria; di’ lor, ch’ove al mio seggio
pervenissero adulti, altra vendetta
non faccian mai della morte del padre,
che rinnovar su l’orme sue le leggi
del gran Licurgo: e se in ciò pur, com’io,
hanno avverso il destin, com’io da forti,
nell’alta impresa perdano la vita.
Agiz. Parlar non posso... Io... di lasciarti...
Agide   Un fido
consiglio avrai, nella mia degna madre;...
s’ella pur resta! — Or via; lasciami; vanne.
Moglie, regina, madre, cittadina,
Spartana sei; tuoi dover tutti adempi.
Agiz. Per sempre?... oh ciel!...
Agide   Deh! cessa.