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atto secondo 73



SCENA SESTA

Nerone, Ottavia.

Ottav. Tra ’l fero orror di tenebrosa notte,

cinta d’armate guardie, trar mi veggo
in questa reggia stessa, onde, ha due lune,
sveller mi vidi a viva forza. Or, lice
ch’io la cagione al mio signor ne chiegga?
Ner. — Ad alto fine in marital legame
c’ebber congiunti i genitori nostri
fin da’ piú teneri anni. Ognora poscia
docil non t’ebbi al mio volere in opre,
quanto in parole: assai gran tempo io ’l volli
soffrir; piú forse anco il soffria, se madre
di regal prole numerosa e bella
fossi tu stata almeno; ond’io ne avessi
ristoro alcun di affanni tanti. Invano
io lo sperai; sterile pianta, il trono
per te d’eredi orbo restava; e tolto
m’era, per te, di padre il dolce nome. —
Ti repudiai perciò.
Ottav.   Ben festi; ov’altra,
troppo piú ch’io nol fui, felice sposa
farti di cari e numerosi figli
lieto potea, ben festi. Altra che t’ami
quant’io, ben so, non la trovasti ancora,
né troverai. Ma che? mi opposi io forse
ai voler tuoi? Nel rimirarti in braccio
d’altra, ne piansi; e piango. Altro che pianto,
e riverenza, e silenzio, e sospiri,
forse da me s’udia giammai?
Ner.   Dolcezza
hai su le labra molta; in cor non tanta.
Traluce ai detti il fiel: tu mal nascondi
l’ira che in sen contro Poppea nudrisci;