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atto terzo 29
Deh, potess’io cosí, come ho trafitto

il padre a lei, morir pur io! potessi
placar, spirando, di Romilda il giusto
sdegno! Deh mai non ti foss’io marito!
Ch’io regicida, e traditor non fora;
e all’amor mio Romilda il cor sí chiuso
or non avrebbe.
Romil.   Io? ti odierei pur anco
non uccisor del padre mio, non cinto
della mal tolta sua corona, e a cruda
madrigna non marito. Altro, ben altro
merto vuolsi, che il tuo, ben altro core,
a farmi udir d’amor: quanto esecrando
a me ti rende il trucidato padre,
tanto, e piú, ti fa vile agli occhi miei,
qual ch’ella sia, la tua tradita moglie.
Tu per lei primo hai tra gl’infami il seggio;
per lei famoso; a lei di nodo eterno
stringer ti dee quel sangue che versasti,
e il comune misfatto. Io mai non soffro,
né in mio pro, tradimenti; non ch’io soffra
il traditore. Altro piú nobil foco,
ond’io nel volto non arrossi, ho in petto.
Presta a morir, non a cessar, no mai,
son io d’amare...
Almac.   Ami?
Romil.   Ildovaldo.
Almac.   Ah! questo,
è questo il colpo, che davver mi uccide.
Rosm. Vero parli, o menzogna? ami Ildovaldo?
Romil. D’amore io l’amo, quale a voi non cape,
non che in core, in pensiero: alcun rimorso
noi non flagella di comun delitto;
schiette nostr’alme, in meglio amarsi han gara
fra lor, non altra. A lui miei tristi giorni,
questi, ch’io mal sopravvissuti ho forse