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324 la congiura de’ pazzi
di estirpar la tirannide, e i tiranni.

Gugl. Due ne torrai: mancan tiranni a schiavi?
Raim. Manca ai liberi il ferro? Insorgan mille,
mille cadranno; od io cadrò.
Gugl.   Tuo forte
volere al mio fa forza. Io, non indegno
d’esserti padre, affiderei non poco
nel tuo nobile sdegno, ove di nostre,
non d’armi altrui ti avvalorassi. Io veggio
non per noi, no, Roma e Fernando armarsi;
ma de’ Medici a danno. In queste mura
li porrem noi; ma, e chi cacciarli poscia
di quí potrá? Di libertá non parmi
nunzia, d’un re la mercenaria gente.
Salv. Io ti rispondo a ciò. Del re la fede,
né di Roma la fede, io non ti adduco:
darla e sciorla a vicenda, è di chi regna
solito ufficio. Il lor comun sospetto,
lor reciproca invidia, e ciò che suolsi
ragion nomar di stato, oggi ti affidi.
Signoreggiar ben ne vorriano entrambi;
ma l’uno all’altro il vieta. In lor non entra
pietá di noi; né ciò diss’io: ma lunga
esperíenza, ad onta nostra, dotti
li fea, che il vario popolar governo,
e l’indiscreto parteggiar, ci fanno
piú fiacchi e lenti e inefficaci all’opre.
Teme ciascun di lor, che insorga un solo
tosco signor sulle rovine tosche,
che all’un di loro a contrastar poi basti,
s’ei fassi all’altro amico. Eccoti sciolto
il regio intrico: in lor vantaggio, amici
si fan di noi. S’altro motor v’avesse,
dirti oserei giammai, che in re ti affidi?
Raim. E s’altro fosse, al mio furor che in petto
serrai tanti anni, or credi tu, ch’io il freno