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atto terzo 323
e di falsa pietá per me, ch’io abborro,

la obbrobríosa tua temenza adombra.
Gugl. ... Figlio mio; tal ben sei; di te non meno
fervido d’ira e giovinezza, io pure
cosí tuonai; ma passò tempo; ed ora
non io son vil, né tu che il dici, il credi;
ma, piú non opro a caso.
Raim.   Ogni tuo giorno
tu vivi a caso; e tu non opri a caso?
Che sei? che siamo? Ogni piú dubbia spene
di vendetta, non fia cosa piú certa,
che il dubbio stato irrequíeto, in cui
viviam tremanti?
Gugl.   Il sai, per me non tremo...
Raim. Per me, vuoi dir? d’ogni paterna cura
per me ti assolvo. Or cittadini entrambi,
null’altro siamo: e a me piú a perder resta,
piú assai che a te. Di mia giornata appena
giungo al meriggio, e tu se’ giunto a sera:
hai figli, ed io son padre; e numerosa
prole ho pur troppo, e in quella etade appunto
atta a nulla per se, fuorché a pietate
destar nel core. Altri, ben altri or sono,
che i tuoi legami, i miei. Dolce consorte,
parte di me miglior, sempre piangente
trovomi al fianco: a me piú figli intorno
piangon, veggendo lagrimar la madre,
e il lor destin non sanno. Il pianger loro
il cor mi squarcia; e piango anch’io di furto... —
Ma, d’ogni dolce affetto il cor mi sgombra
tosto il pensar, che disconviensi a schiavo
l’amar cose non sue. Non mia la sposa,
non mia la prole, infin che l’aure io lascio
spirar di vita a qual ch’ei sia tiranno.
Legame altro per me non resta al mondo,
tranne il solenne inesorabil giuro,