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atto terzo 265
Arrigo Pace? ove appien non è uguaglianza, pace?

Men lusingai piú volte anch’io, ma sempre
deluso fui.
Orm.   Pur, questo giorno a pace
sacro parmi...
Arrigo   T’inganni. È questo il giorno
scelto a varcar meco ogni meta: e questo
a un tempo è il dí, ch’oltre soffrir piú niego.
Orm. Ma che? non credi che sincera in core
sia ver te la regina?
Arrigo   Il cor? chi ’l vede?
Ma, né pur detti, onde affidar mi deggia,
odo da lei.
Orm.   S’ella t’inganna, è giusto
lo sdegno in te. Benché di pace io venga
medíator, pur oso (e a me l’impone
Elisabetta, ove fia d’uopo) offrirti
qual piú brami, o consiglio, o ajuto, o scorta.
Arrigo Ben io, per me, strada a vendetta aprirmi
potrei, se in cor basso desio chiudessi:
ma, pur troppo, né scorta havvi, né ajuto,
che a disserrarmi omai le vie bastasse
della pace, ch’io bramo. Oh duro stato,
quello in cui vivo! Se alla forza io volgo
il mio pensier, tosto, se pur non reo,
rassembro ingrato almeno: eppur, se dolce
mi mostro alquanto, oltre ogni modo accresco
baldanza e ardir di questi schiavi in core,
che d’ogni mal son fonte. A nulla io quindi,
fra quanto imprender pur potrei, mi appiglio:
e spontaneo prescelgo irmene in bando.
Orm. Che vuoi tu fare, o re? S’io dir tel debbo,
peggior del mal questo rimedio parmi.
Arrigo Tal non mi pare: e spero abbia a tornarne
piú danno altrui, che non a me vergogna.
Orm. Ma, non sai tu, che un re fuor di suo seggio,