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atto quinto 213
lo scopre a voi menzogna od arte, o caso.

Dovuta pena io dar poteagli; e il posso:
ma brama troppo è in me di pace: ha chiesto
Merope a me la vita sua; gliel dono;
sol ch’ella omai la destra a me non nieghi,
e al fin taccian fra noi cosí gli sdegni.
Né basta ciò: s’egli è sua prole, io ’l voglio
far del mio regno erede, poiché figli
altri non ho. — Che far piú deggio? — E tanto
degg’io pur fare? — E voi, Messenj, or dianzi
usi all’impero di guerrier canuto,
signor vorreste un giovinetto imberbe,
cresciuto oscuro, a se medesmo ignoto;
che nullo, o tristo saggio ha di se dato;
che ignaro appieno d’ogni pubblic’arte?...
Egisto Ignaro? io ’l son dell’arti tue; nol sono,
no, dell’arti d’Alcide: e prova farne
saprei...
Polid.   Deh! taci: a che innasprirlo? Il vedi;
i satelliti suoi son troppi: ogni uomo,
vedi, quí muto è dal terrore.
Polif.   — Il vostro
tacer, Messenj, alto stupore acchiude
di mia troppa dolcezza. Appien convinti
havvi il mio dir, ben veggo: anzi, non saggio
parvi il mio oprare, or che a costoro affido
me stesso tutto; e di costoro il core
noto esser demmi. È ver; ma, ad ogni costo
alta far voglio e memoranda ammenda
della vittoria mia. — Merope, omai
da te soltanto io pendo: ebbi il tuo assenso
pur dianzi giá; ritormel forse or vuoi?
Mer. — L’universal silenzio orrendo annunzia
chiaro pur troppo il mio destino. — Il figlio,
col mio morir, dunque or si salvi: io ’l debbo. —
O di Cresfonte inulta ombra dolente,