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atto terzo 191
né m’ingannasti... Ma, per ora io scuso

il duol tuo giusto: un dí verrá poi forse... —
Ma, certa sei di tal novella? Ov’era
questo tuo figlio? e donde vien costui,
che messaggero?... Oh! non m’è nuovo affatto
il tuo volto; mi pare...
Polid.   A te son noto:
mirami fiso; del tuo re Cresfonte
spesso m’hai visto al fianco. Polidoro
son io: Messene abbandonai, quand’altri
la serva fronte a usurpator piegava.
Ravvisami: piú bianco è ver ch’io reco
dagli anni il crine; e piú curvato il tergo;
e tinto in morte dagli stenti e angosce
il volto: ma pur sono ognor lo stesso;
ognor nemico a te piú fero. Ho salvo
l’unico figlio del mio re: nudrito,
educato l’ebb’io; per lui lasciata
ho la natal mia terra: e le perdute
ricchezze, e onori, e la per lui perduta
dolce patria, piú a grado eranmi assai
che ogni alto stato, e l’obbedir tiranno. —
Ahi lasso me, che con lui non spirava!...
Se del passato aver vendetta brami,
di me la prendi: in libertá dolersi
Merope lascia; e di mia trista vita,
che spenta è omai, me sciogli. Altro non duolmi,
che il non poter dar oggi i piú verdi anni
al sangue de’ miei re; ma, tal ch’io l’offro,
questo mio tremolante capo, il prendi.
Polif. Pietá mi fai, non ira: assai ben festi
d’importi esiglio. A suddito ribelle
pena non altra io do. Non del sottratto
fanciul, che pur fu generosa l’opra,
ma del fin scellerato a che il serbavi,
colpevol sei. T’era mestier quel giorno,