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atto quinto 157
usurpata con fraude: aperti oltraggi

poscia usar, lieve t’era. Io, per tornarti
cittadino, adoprar dovea da prima
teco la forza, e non mai l’arte.
Echilo   Ed io,
ad alta voce io forse non tel dissi,
che nemico m’avresti? e che, non cinti
di satelliti noi, d’ogni possanza
ancor che ignudi, e soli, a te tremendi
pur noi saremmo? e che da noi dovresti
guardarti ognor? — Men generosi fummo,
o siam, di te?
Timof.   Dicestelo; e mercede
ampia or ven torna. Escluder io voi soli
volli da questa ultima strage, e il siete.
Confonder piú l’ingratitudin vostra
cosí mi piacque; e non turbar la gioja
del mio regno novello. — Omai lusinga
non entri in voi. Le tenebre di notte,
che ai vostri rei consessi prestar velo
solean finor, furo ai vostri empj amici
l’estreme queste. A lor l’avviso vostro
non perveniva, no: quel loco stesso
al tradimento sacro, ove di furto
si radunano, a tutti a un tempo tomba
s’è fatto or giá.
Timol.   Che ascolto?
Echilo   Oh ciel!...
Timof.   Le audaci
lettere vostre a’ Micenéi, son queste;
ecco; ritornan giá: chi le recava,
è spento anch’ei. Vuoi piú? que’ due, che intorno
alle mie soglie ivano errando in arme,
Ortàgora e Timéo, dovuta morte
trovaro anch’essi. — Ove piú vuoi, lo sguardo
in giro manda, e obbedíenza scorgi,