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atto quarto 143
a impetuosa irresistibil piena:

forse poi...
Timol.   Donna, a me favelli?
Demar.   Ahi lassa!...
E se non cedi, or che fia mai?... Deh! m’odi.
Vuoi tu vederlo ucciso? o vuoi, che a forza
feroce insana ambizíon lo tragga
a piú orribil misfatto? Or dal tuo stato
troppo è diverso il suo: sangue giá troppo
versato egli ha, perché securo starsi
possa, s’ei si fa inerme: alla perduta
fama è mestier ch’ei del poter soccorra:
ma te, che usbergo hai la innocenza tua,
parmi ragion ch’io preghi; e tu, piú lieve,
prestarmi orecchio puoi. S’ei ne s’arrende,
tutto ei perde, possanza, e onore, e vita
fors’anco: tu, se a me ti arrendi, nulla
perdi...
Timol.   Quai sensi infami! E nulla nomi
la patria? nulla l’onor mio? — Tu sei
madre a me, tu? — Se da tiranno ei cessa,
temi pel viver suo? — ma dimmi; e credi
ch’ei viver possa, ove tiranno ei resti?
Demar. Oh ciel!... Vendetta ogni tuo detto spira.
Crudo al fratel tu sei, mentr’egli è tutto
amor per te: mentr’egli vuol pur viva
la patria in te, nel senno tuo, nel giusto
alto tuo core; e lo splendor ch’ei dielle
in guerra, or vuol che in pace anco maggiore
l’abbia da te. Ciò mi giurava...
Timol.   E pieghi
tu l’alma a detti (o sien fallaci, o veri)
pur sempre rei? Saper dovresti, parmi,
che un cittadin, non la cittá son io.
La patria viva, è nelle sacre leggi;
negli incorrotti magistrati, ad esse