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atto terzo 133
la miglior parte ei de’ fraterni affetti,

sí, m’usurpava. Al fin mi parve questo
sol, fra’ suoi tanti, il capital delitto.
Echilo Integro troppo, e cittadino, egli era;
questo è il delitto suo. — Ma tu, pensasti,
che alla patria non spenta ancor rimane
Timoleon? ch’Echilo resta?... Ahi folle!...
Deh! dove corri? Io giá t’amava; e quanto,
il sai: dritt’uomo io son; te tal credea:
e il fosti, sí, meco da prima; amico
mi avesti, e t’ebbi... Astretti or sol di sangue
restiam; deh tu, non sciorre anco tal nodo!
Uom, che altamente si professa e giura
aspro nemico di virtú mentita,
mirami ben, son io.
Timof.   Di voi men lieve,
non cangio in odio l’amor mio sí tosto.
Giá v’ebbi, ed hovvi, oltre ogni cosa, cari:
e a racquistare a me il fratel, l’amico,
ogni mezzo terrò. Me non offende
il tuo schietto parlar: ma ancor pur spero
riguadagnarti, or ch’è l’ostacol tolto.
Quanto a te, madre, appien giá t’ho convinta,
che nuovo fren vuolsi a Corinto imporre.
Ch’io non v’abbia a placare a un tempo tutti?...
Demar. Offesa io son, pel fratel tuo...
Echilo   Che ascolto?
Tu inoffendibil per la patria sei?
Demar. Son madre...
Echilo   Di Timofane.
Demar.   D’entrambi...
Echilo No, di Timoleon madre non sei.
Demar. Tu l’odi?... Ahi lassa me!...
Timof.   Lascia, ch’io solo
primiero affronti del fratel lo sdegno,
pria che tu l’oda. A te fia duro troppo