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atto primo 117
demmo noi stessi: infra ozíose mura

di partita cittade, invidia armata
di calunnie e di fraudi il loco primo,
a chi si aspetta, niega. A spegner questo
mortifer’angue ognor, pur troppo! è forza,
che breve pianto a piú durevol gioja
preceda; e gloria con incarco mista
n’abbia chi ’l fa. Mi duol, che il fratel mio,
piú merco io gloria, meno amor mi porti.
Demar. Invido vil pensiero in lui?...
Timof.   Nol credo;
ma pur...
Echilo   Ma pur, niun’alta impresa a fine
condur tu puoi, se caldamente ei teco
senno e man non v’adopra.
Timof.   Or, chi gliel vieta?
Mille fíate io nel pregai: ma sempre
ritroso ei fu. Secondator, nol sdegno;
ma sturbator, nol soffro.
Demar.   E fia, ch’io soffra,
ch’ei d’un periglio tuo non entri a parte;
o che palma tu colga ov’ei non sia?
Echilo, a lui, deh, vanne; e a queste case,
ch’ei piú non stima or da gran tempo stanza
di fratello e di madre, a noi lo traggi.
Convinceremlo, od egli noi; pur ch’oggi
solo un pensiero, un fine, un voler solo,
a Demarista e a’ figli suoi, sia norma.


SCENA TERZA

Demarista, Timofane.

Timof. Forse ei verrá a’ tuoi preghi; ai replicati

miei, da gran pezza, è sordo: ei qual nemico
me sfugge. Udrai, come maligno adombri