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atto quinto 101
viene a mercé.

Ottav.   Qual reo? Parla.
Tigel.   Aniceto.
Seneca D’Agrippina il carnefice!
Ottav.   Che sento?
Tigel. Quei, che Neron d’alto periglio trasse:
fido era allora al suo signor; tu, donna,
traditor poscia il festi. Ei ripentito,
vola or sull’orme tue; primo ei s’accusa;
e tutto svela: ma non men sua pena
ne avrá perciò.
Ottav.   Quale impostura?...
Tigel.   Ei forse
l’armata, ond’è duce in Miseno, a un cenno
tuo ribellar non prometteati? — E dirti
deggio, a qual patto?
Ottav.   Ahi! lassa me! Che ascolto?
Oh scellerata gente! oh tempi!...
Tigel.   Impone
a te Nerone, o di scolparti a un tempo
dei sozzi amori, e de’ sommossi duci,
e degli audaci motti, e delle tante
tese a Poppea, ma invano, insidie vili,
e del tumulto popolare; o vuole,
che rea ti accusi: a ciò ti dona intero
questo venturo dí.
Ottav.   ...Troppo ei mi dona. —
Vanne, a lui torna: e pregalo, ch’ei venga
quí con Poppea. Narrar vo’ solo ad essi
i miei tanti delitti: altro non chieggo:
tanto impetrami; va. Dell’onta mia
lieta a gioir venga Poppea; l’aspetto.