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50 risposta dell’autore

viene? io credo, per cosa certa, dal non v’essere quell’armonia che vuole e soffre il verso sciolto del dialogo, ma quella bensí dell’epico, o lirico rimato. Io ho ecceduto alcune volte in durezza, lo confesso, e principalmente nelle due prime, e piú nel Filippo, e piú nel principio di esso, che nel fine; tal che ad apertura di libro, i miei tu, e io, ed i’, e altre simili cose, avranno ferito a lei l’occhio piú che l’orecchio; perché se un buon attore glie li avesse recitati bene, a senso, staccati, rotti, vibrati, invasandosi dell’azione, ella avrebbe forse sentito un parlare non sdolcinato mai, ma forte, breve, caldo, e tragico, se io non m’inganno. Cosí è succeduto all’Antigone in Roma, che alla recita fu trovata chiara, ed energica dai piú; alla lettura poi, da molti oscura e disarmonica. Ma le parole si vedono elle, o si ascoltano? E se non erano disarmoniche all’orecchio, come lo divenivano elle all’occhio? Io le spiegherò quest’enimma. I versi dell’Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari ai piú idioti; letti poi forse non cosí a senso, non badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, pareano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, né cantato; letti da gente avvezza a sonetti e ottave, non vi trovando da intuonare la tiritéra, li tacciarono di duri: pure quella energia lodata nasceva certamente da questa durezza biasimata. Ora come si può egli, ragionando, lodare d’una cosa l’effetto, e biasimarne la cagione? Restringendo dunque quanto ho detto dell’armonia, ammesso che io ho errato, e piú nelle due prime tragedie, coll’eccedere talvolta in durezza, le do parte che giá ho corretto tutte quattro le stampate di quanto pareva anche a me biasimevole. Addurrò per iscusa di questo mio avere errato, che uomo sono, che quelle erano le prime tragedie ch’io stampava, e che io non aveva ancora penetrato il gusto del pubblico leggente, per poi conciliarlo quanto possibile fosse col gusto del pubblico ascoltante, con quello di quest’arte, nuova per noi, e ad un tempo coll’intimo senso che io ne ho, o credo d’averne. Ho ecceduto nei pronomi principalmente, nelle trasposizioni, e nelle collocazioni di parole; perché quando s’imprende una cosa, il timore d’un difetto, finché non ci si vede ben chiaro, facilmente fa incorrere nell’altro. Cosí in me la paura d’esser fiacco, che mi pare il vero delitto capitale dell’autore tragico, mi ha reso alle volte piú duro del dovere.

Resta a parlarsi della oscuritá, altra parte di stile rimproveratami. E di questa me ne sbrigo, col dire ciò che giá ho toccato quá dietro parlando dell’Antigone; che a voler esser brevissimo,