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SCENA SECONDA

Agamennone, Elettra, Egisto.

Egisto Poss’io venir, senza tremore, innanzi

al glorioso domator di Troja,
innanzi al re dei re sublime? Io veggo
la maestá, l’alto splendor d’un Nume
sopra l’augusta tua terribil fronte...
Terribil sí; ma in un pietosa: e i Numi
spesso dal soglio lor gli sguardi han volto
agli infelici. Egisto è tale; Egisto,
segno ai colpi finor d’aspra fortuna,
teco ha comuni gli avi: un sangue scorre
le vene nostre; ond’io fra queste mura
cercare osai, se non soccorso, asilo,
che a scamparmi valesse da’ crudeli
nemici miei, che a me pur son fratelli.
Agam. Fremer mi fai, nel rimembrar che un sangue
siam noi; per tutti l’obbliarlo fora
certo il migliore. Che infra loro i figli
di Tieste si abborrano, è pur forza;
ma non giá, che ad asil si attentin scerre
d’Atréo la reggia. Egisto, a me tu fosti,
e sei finora ignoto per te stesso:
io non t’odio, né t’amo; eppur, bench’io
voglia in disparte por gli odj nefandi,
senza provar non so qual moto in petto,
no, mirar non poss’io, né udir la voce,
la voce pur del figlio di Tieste.
Egisto Che odiar non sa, né può, pria che il dicesse
il magnanimo Atride, io giá ’l sapea:
basso affetto non cape in cor sublime.
Tu dagli avi il valor, non gli odj, apprendi.
Punir sapresti,... o perdonar, chi ardisse
offender te: ma chi, qual io, t’è ignoto