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atto quarto 257
fia dubbia impresa; e che in piú rie sventure

precipitar Roma poss’io, né trarti
forse di man la figlia. Appio, minacce
dunque non far; che il nuocer so fin dove
concesso t’è: ma pensa anco, deh! pensa,
che in un te stesso a immenso rischio esponi...
Appio Preghi, o minacci tu? Son io quí forse
dei giudizj assoluto arbitro solo?
Poss’io la figlia a un vero padre torre?
Serbargliela anzi del mio sangue a costo
deggio, e il farò: ma, s’ella tua non nasce,
che vaglion preghi? — Il fiel, che mal nascondi,
ben io, ben so, donde lo attingi: ingombro
t’ha Icilio il cor di rei sospetti infami;
ei, che a sue mire ambizíose s’apre
colle calunnie strada. Or, puoi tu fede
a un tal fellon prestar? tu che il migliore
de’ cittadini sei, genero scegli
dei tribuni il peggiore? in un con esso
perder tua figlia vuoi? — D’Icilio certa
è la rovina, ed onorata morte
ei non s’avrá, qual crede. Ei contra Roma
congiura; ei cova orribili disegni.
Chiama tiranni noi; ma in seno ei nutre
di ben altra tirannide il pensiero.
Spenti vuol tutti i padri: al popol poscia
servaggio appresta; e libertá pur grida.
Tanto piú rio mortifero veleno,
quanto è ravvolto entro piú dolce scorza.
Giá il segnal di ribelle innalza a mezzo,
e a mezzo quel di traditore. Io l’armi
all’armi oppongo; alla fraude empia, l’arte.
Tutto è previsto giá. Da lui non sai
sue trame tu; ch’egli e ministro e velo
a sue mire ti vuol, ma non compagno
a sue rapine. Ei sa, che Roma hai cara


 V. Alfieri, Tragedie - I. 17