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atto terzo 253
Padre io non son; se il fossi...

Virg.o   Orribil lampo
tralucer fammi il parlar tuo: deh! taci...
Deh! ten prego.
Numit.   Son madre, e tutto io sento
ciò che tu accenni. Al pianto sol ridotte,
che non abbiam, misere madri, uguale
al dolore la forza!
Icilio   I padri, e’ sposi,
pari al vostro hanno il duol, maggior l’ardire.
Speranza ancora di salvarla io serbo.
Virginio ed io siam soli in Roma forse;
ma noi bastiam soli a dar vita e sdegno
ad un popolo intero.
Virg.o   Ah! che pur troppo
non ponno i detti (e sien pur caldi e forti)
scuoter davver popol, che in lacci geme;
né ad opre maschie risentíte trarlo:
le ingiurie estreme, e il sangue solo, il ponno.
Roma, a sottrarti dai Tarquinj infami,
forza era pur, ch’una innocente donna
contaminata, cadesse trafitta
di propria mano al suol nel sangue immersa!
Virg.a E se a svegliar dal suo letargo Roma,
oggi è pur forza che innocente sangue,
ma non ancor contaminato, scorra,
padre, sposo, ferite: eccovi il petto. —
Cara vi son io troppo? in me l’acciaro
tremereste vibrare? Io giá non tremo;
date a me il ferro, a me. Sia il popol tutto
testimon di mia morte: al furor prisco
lo raccenda tal vista; io di vendetta
sarò il vessillo: entro il mio sangue i prodi
tingan lor brando a gara, e infino all’elsa
lo immergan tutti a’ rei tiranni in petto.
Virg.o Deh, figlia,... or, qual mi fai provar novello