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atto quarto 209
Creon.   La patria, il padre,

il pargoletto tuo, veder non brami?
Argia D’amato sposo abbandonar non posso
il cener sacro.
Creon.   E compiacer pur voglio
in ciò tue brame: ad ottenere di furto
l’urna sua ne venivi; apertamente
abbila, e il dolce incarco in Argo arreca.
Vanne; all’amato sposo, ivi fra’ tuoi,
degna del tuo dolore ergi la tomba.
Argia E fia pur ver? tanta clemenza, or donde,
come, perché? Da quel di pria diverso
esser puoi tanto, e non t’infinger?...
Creon.   Visto
mi hai tu poc’anzi in fuoco d’ira acceso;
ma, l’ira ognor me non governa; il tempo,
la ragion la rintuzza.
Argia   Il ciel benigno
conceda a te lungo e felice impero!
Tornato sei dunque più mite? oh quanta
gioja al tuo popol, quanta al figliuol tuo
di ciò verrá! Tu pur pietá sentisti
del caso nostro; e la pietade in noi
tu cessi al fine di appellar delitto;
e l’opra, a cui tu ne spingevi a forza,
a noi perdoni...
Creon.   A te perdono.
Argia   Oh! salva
Antigone non fia?
Creon.   L’altrui fallire
non confondo col tuo.
Argia   Che sento? Oh cielo!
Ancor fra lacci geme?...
Creon.   E dei tant’oltre
cercar? Ti appresta al partir tuo.
Argia   Ch’io parta?


 V. Alfieri, Tragedie - I. 14