Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. I, 1946 – BEIC 1727075.djvu/192

186 antigone
gonfio Antigone il cor; disegni mille

volgeva in se; ma tacita soffriva
pur l’orribil divieto; e, s’io non era,
infranto mai non l’avrebb’ella. Il reo
d’un delitto è chi ’l pensa: a chi l’ordisce
la pena spetta...
Antig.   A lei non creder: parla
in lei pietade inopportuna, e vana.
Di furto, è vero, in questa reggia il piede
portò, ma non sapea la cruda legge:
me qui cercava; e timida, e tremante,
l’urna fatale del suo dolce amore
chiedea da me. Vedi, se in Argo giunta
dell’inuman divieto era la fama.
Non dirò giá, che non ti odiasse anch’ella;
(chi non t’odia?) ma te piú ancor temea:
da te fuggir coll’ottenuto pegno
del cener sacro, agli occhi tuoi sottrarsi,
(semplice troppo!) ella sperava, e in Argo
gli amati avanzi riportar. — Non io,
non io cosí, che al tuo cospetto innanti
sperai venirne; esservi godo; e dirti,
che d’essa al par, piú ch’ella assai, ti abborro;
che a lei nel sen la inestinguibil fiamma
io trasfondea di sdegno, e d’odio, ond’ardo;
ch’è mio l’ardir, mia la fierezza; e tutta
la rabbia, ond’ella or si riveste, è mia.
Creon. Qual sia tra voi piú rea, perfide, invano
voi contendete. Io mostrerovvi or ora,
qual piú sia vil fra voi. Morte, che infame,
qual vi si dee, v’appresto, or or ben altra
sorger fará gara tra voi, di preghi
e pianti...
Emone   Oh cielo! a morte infame?... Oh padre!
Nol credo io, no; tu nol farai. Consiglio,
se non pietade, a raddolcir l’acerbo