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atto quinto 161
pur disegnavi, ed ingannar la madre:

ma, trema: io vivo ancor: quell’empio cuore
ch’io a te donai, strappar tel posso io stessa.
Antig. Tutto ancora non sai: solo incolparne
Polinice non dei...
Gioc.   Ne incolpo il vivo;
ch’è reo sol ei...
Antig.   Chi sa, s’ei vive? — O madre,
se d’ascoltarmi hai forza, udrai che reo
men che infelice egli era. — Al campo appena
ei giunge, intorno a lui stringesi un fero
drappel di argivi eroi, che a gara il grido
annunziator della vittoria all’aure
mandan tremendo. Al pian per altra parte
sceso Eteócle pria, battaglia quivi
in dubbio marte ardea; che Adrasto a fronte
gli stava, e, pieno il cor d’alta vendetta,
Tidéo. Ma giá ver l’aspra mischia ha volto
ratto il piè Polinice: a lui davante
vola il terror; Morte i suoi passi segue.
A destra, a manca, a fronte, in guise mille,
orride tutte, ei mille morti arreca;
né data gli è, quella ch’ei cerca. Innanzi
al suo brando giá Tebe ondeggia, e cede,
e fugge; e spera obbrobríosa vita
mercar fuggendo. Ecco Eteócle; ei balza
in furia fuori del fuggiasco stuolo;
e con voce terribile grida egli:
«A Polinice.» A rintracciarlo ei corre
precipitoso; e il trova al fine...
Gioc.   Ahi lassa!
Misera me!... L’altro nol fugge?...
Antig.   Ah! come
sottrarsi a tanto, a sí feroce orgoglio?
Eteócle prorompe all’onte; il taccia
di codardo, e lo sfida; a viva forza


 V. Alfieri, Tragedie - I. 11