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atto terzo 141
di patria pur; che al sol pensier, che in trono

salir può un re, che in pregio abbia virtude,
fremono, agghiaccian di terrore: e n’hanno
ben donde in ver; che mal trarrian lor giorni
sotto altro regno. Alla bramata pace,
madre, (tel dico, e fanne omai tuo senno)
invincibili ostacoli non sono
d’Eteócle il lungo odio, o il breve sdegno
di Polinice: ostacol rio, son gli empj
di servil turba menzogneri accenti.


SCENA TERZA

Giocasta, Antigone, Polinice.

Gioc. Figlio, in te spero; in te solo omai spero;

di vera pace (ah! sí) Tebe, la madre,
e la sorella che tant’ami, e tanto
ama ella te, tutti or ne vuoi far lieti.
Parla, non dico io vero? Ottimo figlio,
buon cittadin, miglior fratel non sei?
Adrasto in Argo a ritornar si appresta?
Polin. Eteócle di Tebe a uscir si appresta?
Gioc. Che sento? A danno nostro, ad onta tua
udirti ognor degg’io pace negarmi,
o non volerla primo? Andrá (pur troppo!)
lontano anch’egli il tuo germano; andranne
esule, qual ne andasti: a eterno pianto
dal ciel, da voi, dannata io son; né fia,
che cessi mai. Ten pasci tu del mio
pianto materno? Ah! di’: non eri dianzi
tutto in parole pace?
Polin.   Or dalla pace,
piú assai di pria, son lungi: e non men dei
chieder ragion; tal v’ha ragione orrenda,
che dir non posso; ma la udrai tra breve;