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ruvidi de’ suoi fratelli: voleva dire mangiar bene, e starsene tutto il giorno a non far nulla nel calduccio delle coperte, mentre fuori fischiava un vento gelato o pioveva a rovescio, ed essere servito come un re.

Rideva dentro di sè quando la mattina vedeva Natale partir per la scuola, e tornarsene inzuppato, Egli non avrebbe più voluto levarsi dal letto, e si mostrava quieto e silenzioso, tanto che Grazia ebbe più volte a dire: — Quella disgrazia è stata proprio una lezione per Innocente: non si riconosce più! —

E diceva a Natale: «Perchè non stai su a giocare con Nocente? quando sei vicino al suo letto, te ne stai serio serio come se ti facesse soggezione.... —

Infatti Natale entrava a malincuore nella camera di Nocente. Quella tranquillità e quell’umiltà gli davano come un senso di sgomento: egli sapeva che non c’era da fidarsi, e in fondo a quegli occhi vedeva l’ipocrisia; ma era troppo bambino ancora per sapersi spiegare che cosa provava e che cosa pensava.

Nocente digrignò i denti, una mattina che sentì la voce del dottore dire a Grazia: «Come! è ancora qui? Io ero passato a casa sua, sicuro di trovarvelo. E ancora a letto?!»

Entrò nella stanza, guardò la cicatrice della testa, tastò il polso del fanciullo, e disse ruvido. «Su, su, poltronaccio! che stai meglio di noi! E tempo che tu levi il disturbo a questa buona gente, e spero bene che saprai ringraziarli come devi.»

Questa ammonizione irritò Nocente. Era così fatto che bastava dirgli: fa così perchè gli venisse voglia di fare proprio l’opposto.

Tre ore dopo egli usciva da quella casa senza dir grazie. Sua madre lo supplicò colla voce di pianto,