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amara che gli faceva digrignare i denti e gli metteva nei grandi occhi azzurri tanto dolci un lampo di sdegno.
La maestra cominciò la sua lezione.
«Raffaella, sta diritta, attenta!»
Ma la piccina seguitava a voltarsi e a rizzarsi con un ginocchio sul banco per vedere in fondo.
A un tratto un forte singhiozzo risonò nell’aula.
«Natale piange! Natale piange!» gridarono dieci o dodici, in un tono che non era di pietà.
La maestra gli s’avvicinò: «Cosa c’è? perchè piangi?... perchè la mamma è andata via!»
Egli fece segno di no colla faccia nascosta nel gomito.
«E allora, perchè? parla, dimmelo.»
«Perchè.... sono solo!»
«Solo? dove? qui nel banco? Ma mi posso fidare a darti un compagno? Di’, non lo maltratterai?»
Natale rizzò la testa e la guardò cogli occhi larghi, stupiti, lucenti di lagrime.
«Ebbene, vediamo.» E alzando la voce, la maestra disse: «Chi di voi vuol venire nel banco di Natale?»
Nessuno rispose. Nocente e Richetto si tenevano tranquilli e paurosi più degli altri.
«Vedi....» stava per cominciare la maestra, ma in quel momento vide arrampicarsi su nel banco una piccola testa bruna e ricciuta, la piccola Raffaella, che col viso raggiante disse, mettendosi tutta giuliva accanto a Natale:
«Io! io! vengo qua io!»
Un mese dopo tutti i bambini e le bambine dell’asilo avrebbero voluto essere al posto di Raffaella,