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DE AMORE

A Paolo Codagnello



Benché da te me senta incitato a non tacere in queste quello che io in altre mie, quali da Firenze a te scrissi, lettere, solo per non dare occasione a chi forse così volessi me esser qui riputato mordace e maldicente, però volentieri tacea, pure a me, a cui tuoi detti e fatti sempre piacquono, le tue ultime brevissime lettere furono non ingioconde. Nell’altre mie, quanto estimava, assai copioso recitai quanto a ogni nobile e prestantissimo ingegno, quale affermo essere il tuo, questa cura amatoria sia pestifera al tutto e perniciosa. Riconoscesti in quanti modi questo lascivo ardore dell’amore disturbi e perverta qualunque pubblica e privata impresa e onorata faccenda. Né credo indi fusse da dubitare che l’animo, occupato e oppresso da quella molestia assidua certo e grandissima dell’amore, mai potea vivendo così vendicarsi in degna alcuna fama, o salire in qual si sia onesto e laudato grado d’onore e autorità.

Così me parse avere provato a te quanto chi era servo dell’amore, costui niente potea cosa alcuna degna o atta a uno ingegno libero e virile. Ora, se in quelle mie lettere te, quanto per le tue veggo, poco aiutai, se tu non però bene resti essere non tuo e inimico a te stesso, posso io non dolermi del nostro infortunio? Paulo mio, chi incolperemo noi? Me forse, che già te, da te stessi e dalla tua singulare prudenza caduto e abandonato, ove bisognava, con molto studio, cura e diligenza mia non bene eccitai e ripresi. Che poi diremo noi, te meritare nulla di biasimo, se tanto non ti