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18. Il suicidio e le polemiche


Aaron si tolse improvvisamente la vita nel suo appartamento di Brooklyn l’11 gennaio 2013.

Non lasciò lettere, né biglietti, né messaggi. È, quindi, operazione assai azzardata cercare di entrare nella sua mente, e nel suo umore di quella mattina, per individuare delle motivazioni.

Le ipotesi che si possono fare sono molte. Fu, forse, il timore di sacrificare una buona parte della sua vita in prigione a causa di un comportamento veniale, percepito, comunque, da gran parte della comunità di attivisti che frequentava come giusto e, soprattutto, non nocivo? O aleggiava l’incubo dell’impossibilità, a causa di una condanna e dell’ammissione di un grave reato, di ottenere un incarico pubblico in politica? O, ancora, era stata la lunga situazione processuale ad averlo logorato e ad aver acuito preesistenti sintomi di disagio?

Nessuno lo può sapere. Di certo, dopo un simile, tragico fatto, che ebbe un impatto forte in tutto il mondo, prese il via un’analisi certosina, sociale e politica, del suo gesto, portata avanti soprattutto da familiari ed esponenti della stampa, per cercare di comprendere il perché.

La polemica si spostò, innanzitutto, sulla violenza di quell’azione giudiziaria.

Quanto poteva essere percepita come brutale, da un giovane come lui e, soprattutto, da un carattere come il suo, l’esperienza di essere indagati per reati così gravi?

I procuratori, dal canto loro, avevano fatto la scelta di usare tutte le armi in loro possesso – anche le più potenti, quelle pensate per terroristi, narcotrafficanti e pedofili – per perseguire un fatto che, in fin dei conti, si era rivelato di poca importanza. L’amministrazione della giustizia e la politica avevano allora voluto fare di Aaron, suo malgrado, un esempio? Come in Antigone, si trovava a dover pagare sulla sua pelle la colpa dei padri e l’ostilità nei confronti del mondo hacker, che il governo statunitense portava avanti da decenni?

Molte voci, di conseguenza, iniziarono ad accusare il governo nordamericano di aver chiaramente contribuito alla morte del ragazzo.

L’accusa non aveva preso in considerazione, con la dovuta attenzione, i problemi di salute e personali, che trasparivano anche da alcuni scritti sul suo blog. E ciò, nonostante più volte gli avvocati e i familiari avessero segnalato al procuratore come il giovane fosse a rischio-suicidio in caso di condanna a un periodo di carcere.

Un trauma molto profondo, di cui soffrì Aaron durante le fasi investigative, fu legato al rapporto processuale tra il procuratore Heymann e Quinn Norton, giornalista e attivista, con cui Aaron aveva avuto un’importante relazione – anzi, la sua prima relazione – e a cui era rimasto molto legato, sia a lei, sia alla figlia.