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probabile che, andato presso il padre a Monopoli, lo inducesse a trasferirsi con lui a Barletta, dove poteva contare di esercitar l’arte sua con qualche profitto.
Quando venne, dunque, a Napoli nel 1501 per la seconda volta, Leone aveva giá un secondo bambino: ma questi morí, di cinque anni appena, nel 1504. Fosse a scopo di distrazione dalla nuova e dall’antica sciagura (Elegia I, vv. 76-80), fosse che il padre vecchissimo domandava il suo aiuto per la stampa delle proprie opere, in quello stesso anno lasciava la moglie a Napoli e si recava a visitare don Isacco a Venezia: e lá compose tre serie di distici dedicatori per i tre commentari talmudici del padre, pubblicati nel 1505-’06 a Costantinopoli. Ritornato a Napoli, che aveva lasciata sossopra per la sconfitta di re Federico e dei francesi al Garigliano e la conseguente caduta dell’ultimo Aragonese (e può darsi che anche queste vicende lo avessero indotto a un momentaneo allontanamento), trovò un nuovo protettore in Gonsalvo de Cordoba, liberalissimo verso i giudei, che lo nominò suo medico personale1. Ma nel 1506 il gran viceré, caduto in disgrazia e in sospetto, lasciava Napoli: e il governo diretto di Ferdinando il Cattolico vi si faceva sentire in tutto il suo peso. Per Leone Abarbanel, che era fuggito da Siviglia in quel modo e con quel rifiuto, non era prudente restare: e quindi eccolo a Venezia, ancora presso il padre, che muore nel 1508. Giá intorno al 1504 Leone aveva steso la splendida e desolata Elegia sopra il destino: e a Napoli è probabile che avesse anche recato a compimento il terzo dei Dialoghi, almeno nella sua ossatura fondamentale. Certamente a Venezia egli si dedicò, tra il 1506 e il 1509, ancora e intensamente alla filosofia. Un amico di suo padre, Saul Cohen, indirizzando da Candia a Isacco (1506-’07) dodici questioni filosofiche, domanda anche il parere di rabbi Jehudah, del quale ha udito che «si distingue nello studio di tutta la filosofia greca, diretto a penetrare nel sistema del Filosofo (Aristotele), e inoltre segue una singolare via di profonda investigazione, interpretando le sentenze sapienziali tramandate dall’antichitá in modo da scoprirvi parabole e allegorie»: come di fatti si riscontra nel II e III dei suoi Dialoghi. E Isacco, dopo avere in particolare sottoposto al figlio la decima di quelle questioni, sulla materia originaria,