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Trecento cavalier di grande ardire
ha sotto sé quello conte Vermiglio,
tutti aquistati per forza, al ver dire,
ciascun possente, gaio come giglio;
e mille o piú n’avea fatti morire
per forza d’arme, sanza alcun consiglio.
La guardia in sul camin tenea per mostra,
a chi passava facia chieder giostra.
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La guardia vide il donzelletto gaio,
gridò al conte; ed egli, udendo, armossi
e della ròcca usci su un destrier baio;
in sul camin con Gibello scontrossi.
Vedendo il conte Gibel tanto gaio,
subitamente di lui innamorossi:
cortesemente disse che ascendesse
e vassallaggio cogli altri facesse.
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Allor Gibello, pieno di valenza,
arditamente al conte rispondia:
— Fede non giurerei, se tua potenza
imprima non si pruova colla mia.
Veramente tu hai vana credenza
a domandare ch’io tuo servo stia.
Ma per prigion vo’ che tu a me t’arrenda.
S’altro vuo’dir, la spada mi difenda! —
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Se prima il conte n’era innamorato,
udendol, doppiamente innamoronne
e disse: — Giovinetto ingraziato,
di tua possanza un colpo aspetteronne,
e, s’io da te saraggio iscavallato
giurerò fedeltá, teco verronne.
Ma, se tu non mi abbatti del cavallo,
giurami fé che starai mio vassallo. —