Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/67


atto secondo 55

a una veglia, stregner la mano al ballo tondo e poi vantarsi che lo stregner sia venuto da lei e star tutta la notte senza dormire e a ogn’ora trovar nova invenzione di dir mal d’altrui senza proposito. Tutte queste cose io non so a che diavol di fine che se le faccino, i merloni. Vuo’ lo veder che gli è pazzia? che, se pur un di loro, doppo che, piangendo e sospirando, ara gittato vint’anni intorno alla dama come gittarli nel carnaio, ne verrá pure a quel ponto tanto dolce melato, ei non stará un quarto d’ora con essa che la vorrebbe poter gittare con un calcio sopra quel campanile. Ma del mangiare tutto el contrario interviene, che tuttavia ti sa meglio. Dica chi vuole, che questa è la vera felicitá e tutte l’altre son pazzie, Panzana mio.

Panzana. Io ti sto a odir per impazzato, tanto mi riesci savio fra le mani! Io, per me, so’ de’ tuoi. Vo’ lassar le donne a chi le vuole.

Sguazza. Sai, Panzana, se pur... pur... pur... pure io fusse sforzato ad avere una donna, com’io la vorrei per manco male? Non mi piacerebbe in nessun modo: ma, quando mi fusse pur forza, la vorrei grassarella, giovanetta giovanetta, e poi cotta infilzata per ischena, com’una porchetta; ch’io non credo che fusse cattivo boccone a fatto.

Panzana. Ah! ah! ah! Cancar ti venga! Ah! ah! ah! Una donna cotta!

Sguazza. Voglio che noi stiamo qualche volta, Panzana, insieme: che ora ti vo’ lassare; che, ciò ch’io stesse piú, non sarebben poi cotti questi capponi.

Panzana. Né le mie starne. Per Dio! Me n’ero giá scordato, tanto piacere avevo di sentirti ragionare!

Sguazza. Or vatti con Dio.

Panzana. A rivederci.

Sguazza. Si, si. Dubito che non saran cotti, ch’io veggo appressarsi l’ora del desinare. Pur gli farò cuocer, se crepassero.