Ottavia (Alfieri, 1946)/Atto quinto

Atto quinto

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Atto quarto

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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Ottavia.

Ecco, giá il popol tace: ogni tumulto

cessò; rinasce il silenzio di morte,
col salir delle tenebre. Qui deggio
aspettar la mia sorte; il signor mio
cosí l’impone. — Or, mentre sola io piango,
che fa Nerone? In rei bagordi egli apre
la notte giá. Securo stassi ei dunque?
sí tosto? appieno?... E in securtá pur viva!
Ma, a temer pronto, e a distemer del pari,
nulla ei piú crede ad un lontan periglio:
di un tanto error, deh, non glien torni il danno! —
Fra disoneste ebrezze, e sozzi giuochi
di scurril mensa, or (qual v’ha dubbio?) orrenda
morte ei mi appresta. Il fratel mio giá vidi
cader fra le notturne tazze spento;
scritto in note di sangue a mensa anch’era
d’Agrippina l’eccidio: ognor la prima
vivanda è questa, che a sue liete cene
imbandisce Neron; le palpitanti
membra de’ suoi. — Ma, il tempo scorre; e niuno
venire io veggio,... e nulla so... Del tutto
Seneca anch’egli or mi abbandona?... Ah, forse

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piú non respira... Oh cielo!... ei sol pietoso

era per me... Neron giá forse in lui
il furor suo... Ma, oh gioja! Eccolo, ei viene.


SCENA SECONDA

Ottavia, Seneca.

Ottav. Seneca, oh gioja! ancor sei dunque in vita?

Vieni, o mio piú che padre... E che? nel volto
men tristo sembri: oh! che mi arrechi?
Seneca   Intatta,
godi, è pur sempre la innocenza tua.
Le tue tante virtú d’alcun lor raggio
infiammato a virtude hanno i piú bassi
servili cori. Infra martíri atroci,
fra strazj orrendi, le tue ancelle a un grido,
tutte negaro il tuo supposto fallo.
Marzia fra loro era da udirsi: in fermo
viril libero aspetto (e da far onta
a noi schiavi tremanti) in Neron fitti
gl’imperterriti sguardi, ora a vicenda
Tigellino, or Nerone, ad alta voce
mentitor empj iva nomando: e piena
di generosa rabbia, inni solenni
di tua santa onestá cantando, salda
ella ai tormenti, da forte spirava.
Ottav. Misera! ahi degna di miglior destino!...
Ma ciò, che vale? A ricomprar mio sangue,
havvi sangue che basti?
Seneca   Or, piú che pria,
scabro a Neron fassi il versarlo. Hai tratto
lustro ed onor donde sperò l’iniquo
che infamia trar tu ne dovresti, e morte.
Eucero stesso, benedire ei s’ode
il suo morire. Or giuramenti orrendi,

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per cui sua testa agli infernali Numi

consacra; or spande liberi, e feroci
detti, che attestan tua virtude; or giura
piú a grado aver e funi, e punte, e scuri,
che l’oro offerto di calunnia in prezzo.
Di Tigellino ei le promesse infami
chiare ad ogni uomo fa; lo ascoltan pieni
d’inusitato orror gli stessi feri
suoi carnefici, e quasi le lor mani
trattengon, mal loro grado. In fretta io vengo
il grato avviso a dartene.
Ottav.   Deh! mira,
chi viene a me: miralo, e spera.
Seneca   Oh cielo!


SCENA TERZA

Tigellino, Ottavia, Seneca.

Tigel. Il tuo signor ver te m’invia.

Ottav.   Deh! rechi
tu almen mia morte? Or che innocente io sono,
grata sarammi.
Tigel.   Il tuo signor per anco
tal non ti crede; e, ad innocente farti,
non bastava il munir di velen pria
Eucero, e tutte le tue conscie ancelle,
sí, che ai martír non resistesser: gli hai
tolti ai tormenti, ma a te stessa il mezzo
di scolparti toglievi...
Ottav.   Or, qual novella
menzogna?...
Tigel.   Omai vieta Neron, che fallo
non ben provato a te si apponga. Or altra,
ben altra accusa or ti s’aspetta; e il reo,
non fra’ martir, ma libero, e non chiesto,

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viene a mercé.

Ottav.   Qual reo? Parla.
Tigel.   Aniceto.
Seneca D’Agrippina il carnefice!
Ottav.   Che sento?
Tigel. Quei, che Neron d’alto periglio trasse:
fido era allora al suo signor; tu, donna,
traditor poscia il festi. Ei ripentito,
vola or sull’orme tue; primo ei s’accusa;
e tutto svela: ma non men sua pena
ne avrá perciò.
Ottav.   Quale impostura?...
Tigel.   Ei forse
l’armata, ond’è duce in Miseno, a un cenno
tuo ribellar non prometteati? — E dirti
deggio, a qual patto?
Ottav.   Ahi! lassa me! Che ascolto?
Oh scellerata gente! oh tempi!...
Tigel.   Impone
a te Nerone, o di scolparti a un tempo
dei sozzi amori, e de’ sommossi duci,
e degli audaci motti, e delle tante
tese a Poppea, ma invano, insidie vili,
e del tumulto popolare; o vuole,
che rea ti accusi: a ciò ti dona intero
questo venturo dí.
Ottav.   ...Troppo ei mi dona. —
Vanne, a lui torna: e pregalo, ch’ei venga
quí con Poppea. Narrar vo’ solo ad essi
i miei tanti delitti: altro non chieggo:
tanto impetrami; va. Dell’onta mia
lieta a gioir venga Poppea; l’aspetto.

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SCENA QUARTA

Ottavia, Seneca.

Seneca E che vuoi far?

Ottav.   Morir; sugli occhi loro.
Seneca Che parli?... Oimè! tel vieterá, se il brami...
Ottav. E un sí gran dono da Neron vogl’io? —
Ad altri il chieggo; e spero...
Seneca   Erami noto
Nerone assai; ma pur, nol niego, or sono
d’atro stupor compreso. Ognor piú fero
ch’altri nol pensa, egli è.
Ottav.   — Seneca, ad alta
impresa, io te nel mio pensiero ho scelto.
S’hai per me stima, amor, pietade in petto,
oggi men puoi dar prova. A me giá fosti
mastro di onesta, e d’incorrotta vita;
di necessaria morte esser mi dei
or tu ministro.
Seneca   Oh cieli... Che ascolto?... Morte
d’impeto insano esser de’ figlia?
Ottav.   A vile
tanto mi hai tu, che d’immutabil voglia
non mi estimi capace? Or, non è forse
morte il minor dei minacciati danni?
Ch’altro mi resta? di’. — Tu taci?
Seneca   ...Oh giorno!
Ottav. Su via, rispondi: altro che far mi avanza?
Seneca ... Mi squarci il cor... Ma, poss’io mai sí crudo
esser da ciò?...
Ottav.   Saviezza in te fallace
or tanto fia? Puoi dunque esser sí crudo
da rimirarmi strazíata in preda
della rival feroce, a cui mia vita
poco par, se mia fama in un non toglie?

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Lasciarmi esposta alle mal compre accuse

d’ogni ribaldo hai core? alla efferata
del rio Nerone insazíabil ira?
Seneca ... Oh giorno infausto! Or perché vissi io tanto?
Ottav. Ma, e che t’arresta?... e che paventi?... Ancora
forse hai speme?
Seneca   Chi sa?...
Ottav.   Tu, men ch’ogni altri,
speri: Neron troppo conosci: hai fermo
tu per te stesso (e certo a me nol nieghi)
sfuggir da lui con volontaria morte:
tu, fermo in ciò, da men mi credi; e m’ami?
Tremendo ei m’è, fin che dell’alma albergo
queste misere mie carni esser veggio.
Oh qual può farne orrido strazio! e s’io
alle minacce, ai tormenti cedessi?
Se per timor mi uscisse mai del labro
di non commesso, né pensato fallo,
confessíon mendace?... Da lunghi anni
uso a mirar dappresso assai la morte,
tu stai securo: io non cosí; d’etade
tenera ancor, di cor mal fermo forse;
di delicate membra; a virtú vera
non mai nudrita; e incontro a morte cruda
ed immatura, io debilmente armata;
per te, se il vuoi, fuggir poss’io di vita;
ma, di aspettar la morte io non ho forza.
Seneca Misero me! co’ miei cadenti giorni
salvar sperava i tuoi. Dovea la plebe
udir da me le ascose, inique, orrende
arti del rio Neron;... ma invano io vissi:
tace la plebe; ed altro omai non ode
che il timor suo. Di questa orribil reggia
mi è vietato l’uscire... Oh ciel! chi vale
contro empio sir, s’empio non è?
Ottav.   Tu piangi?...

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Me dall’infamia e dai martír, deh! salva:

da morte, il vedi, ogni sperarlo è vano.
Salvami, deh! pietade il vuole...
Seneca   E quando...
io pur volessi,... in sí brev’ora,... or... come?...
Meco un ferro non ho; giunge a momenti
Nerone...
Ottav.   Hai teco il velen sempre: usbergo
solo dei giusti in queste infami soglie.
Seneca Io,... con me?...
Ottav.   Sí; tu stesso, altra fíata,
tu mel dicesti. I piú segreti affetti
del travagliato animo tuo, qual padre
tenero a figlia, a me svelavi allora.
Rimembra, deh! ch’io teco anco ne piansi. —
Ma, il nieghi? Io giá maggior di me son fatta.
Necessitá fa prodi anco i men forti.
Giunge or ora Nerone; al fianco ei sempre
cinge un acciaro: io mi v’avvento, e il traggo,
e men trafiggo... La mia destra forse
mal servirammi: io ne farò pur l’atto.
Di aver tentato di trafigger lui,
mi accuserá Nerone: e ad inaudita
morte dannar tu mi vedrai...
Seneca   Deh! donna,
quai strali di pietade a me saetti?...
Per me il vorrei... Ma,... t’ingannasti; io meco
non ho veleno...
Ottav.   ...E ognor non rechi in dito
un fido anello? eccolo; il voglio...
Seneca   Ah! lascia...
Ottav. Invano... Io ’l tengo. Io ne so l’uso: ei morte
ratta, e dolce rinserra...
Seneca   Il ciel ne attesto...
deh! ten prego,... mel rendi... Or, s’altra via...
Ottav. Altra non resta. Eccolo schiuso... Io tutta

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giá sorbita ho coll’alito la polve

mortifera...
Seneca   Me misero!...
Ottav.   Gli Dei
t’abbian mercé del prezíoso dono,
opportuno a me tanto... Ecco... Nerone.
A liberarmi... deh!... morte... ti... affretta.


SCENA QUINTA

Nerone, Poppea, Tigellino, Ottavia, Seneca.

Ner. Cagion funesta d’ogni affanno mio,

dalle mie mani al fin chi ti sottragge?
Chi per te grida omai? Dov’è la plebe? —
Ben scegliesti: partito altro non hai,
che svelarti qual sei: far chiaro appieno
a Roma, e al mondo ogni delitto tuo;
me discolpar presso al mio popol, darti
qual t’è dovuta, con infamia, morte.
Seneca Piú non mi pento, e fu opportuno il punto.
Ottav. Nerone, appien giá sei scolpato; godi.
Giá d’esser stata tua, d’averti amato,
data men son debita pena io stessa,
Ner. Pena? Che festi?
Ottav.   Entro mie vene serpe
giá un fero tosco...
Ner.   E donde?...
Poppea   Or mio davvero,
Neron, tu sei.
Ner.   Donde il velen?... Tu menti.
Tigel. Creder nol dei; severa guardia...
Seneca   E puossi
deluder guardia; e il fu la tua. Gli Dei
scampo ai giusti non niegano.
Ottav.   Mi uccide

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il tosco in breve; e tu il vedrai: pietoso

ecco chi ’l diede; anzi, a dir ver, gliel tolsi.
Caro ei l’avrá, se nel punisci; io quindi
nol celo. Mira: in questa gemma stava
la mia salvezza. Di tua fede in pegno,
il dí delle mortali nozze nostre,
tal gemma tu darmi dovevi...
Ner.   Il veggio,
l’ultima è questa, e la piú orribil trama,
per far che Roma mi abborrisca. Iniquo,
tu l’ordisti; ma or ora...
Poppea   Alla tua pena
ti sottraesti, Ottavia; invan sottrarti
speri all’infamia.
Ottav.   A te rispondo io forse? —
Tu, Nerone, i miei detti ultimi ascolta.
Credimi, or giungo al fatal punto, in cui
cessa il timor, né il simular piú giova,
ov’io pur mai fatto l’avessi... Io moro:
e non mi uccide Seneca:... tu solo,
tu mi uccidi, o Neron: benché non dato
da te, il velen che mi consuma, è tuo.
Ma il veleno a delitto io non t’ascrivo.
Ciò far tu pria dovevi; da quel punto,
in cui t’increbbi: eri men crudo assai
nell’uccidermi allor, che in darti a donna,
che amarti mai, volendo, nol sapria.
Ma, ti perdono io tutto; a me perdona,
(sol mio delitto) se il piacer ti tolgo,
coll’affrettare il mio morir poch’ore,
d’una intera vendetta. Io ben potea
tutto, o Neron, tranne il mio onor, donarti;
per te soffrir, tranne l’infamia, tutto...
Niun danno a te fia per tornarne, io spero,...
dal... mio... morire. Il trono è tuo: tu il godi:
abbiti pace... Intorno al sanguinoso

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tuo letto... io giuro... di non mai... venirne

ombra dolente... a disturbar... tuoi... sonni...
Conoscerai frattanto un dí costei. —
Ner. Piú la conosco, piú l’amo; e piú sempre
d’amarla io giuro.
Seneca   In cor l’ultimo stile
questi detti le piantano: ella spira...
Poppea Vieni; lasciam questa funesta stanza.
Ner. Andiamo: e sappia or Roma tutta, e il campo,
ch’io costei non uccisi: e in un pur s’oda
il delitto di Seneca, e la morte.


SCENA SESTA

Seneca.

Te preverrò. — Ma l’altre etá sapranno,

scevre di tema e di lusinga, il vero.