Orlando innamorato - Libro I/Canto V

Canto V

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Canto IV Canto VI

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CANTO QUINTO


        Voi vi doveti, Segnor, racordare
     Come Ranaldo forte era turbato
     Veggendo Ricciardetto via portare.
     Gradasso incontinente ebbe lasciato,
     E il gran gigante viene ad afrontare.
     Era quello Orïone ignudo nato;
     Negra ha la pelle, e tanto grossa e dura,
     Che de coperta de arme nulla cura.

        Ranaldo dismontò subito a piede,
     Perchè forte temeva di Baiardo
     Per il gran tronco che al gigante vede;
     Esser non li bisogna pigro o tardo.
     Apena che Orïone estima o crede
     Che si ritrova in terra un sì gagliardo
     Che ardisca far con lui battaglia stretta:
     Però si sta ridendo, e quello aspetta.

MI. o de. — T. e MI. tronchone. [p. 90 modifica]

        Ma non aveva Fusberta assaggiata,
     Nè le feroce braccia di Ranaldo,
     Chè l’armatura se avrebbe augurata.
     A due man mena il principe di saldo,
     E nella cossa fa grande tagliata.
     Quando Orïone sente il sangue caldo,
     Tra’ contra terra forte Ricciardetto,
     Mugiando come un toro, il maledetto.

        Stava disteso Ricciardetto in terra,
     Senza alcun spirto, sbigotito e smorto;
     E quel gigante il grande àrboro afferra:
     Ranaldo in su l’aviso stava accorto.
     Quando Orïone il gran colpo disserra,
     Non che lui solo, un monte ne avria morto;
     Ranaldo indietro si retira un passo.
     Ecco a la zuffa arivò il re Gradasso.

        Non scia Ranaldo già più che si fare,
     E certamente gli tocca paura.
     Lui, che di core al mondo non ha pare,
     Mena un gran colpo fuor d’ogni misura:
     Fusberta se sentiva zuffellare.
     Gionse Orïone al loco de cintura;
     A meza spada nel fianco lo afferra:
     Cadde il gigante in dui cavezzi in terra.

        Nulla dimora fa il franco barone,
     Nè pur guarda il gigante che è cascato,
     Subitamente salta su l’arcione,
     E contra di Gradasso se n’è andato.
     Ma non se può levar de opinïone
     Quel re il colpo che ha visto ismisurato;
     Con la man disarmata ebbe a cignare
     Verso Ranaldo, che li vol parlare.

2. T. Nelle. — 19. P. Ei. [p. 91 modifica]

        E ragionando poi con lui dicia:
     E’ serebbe, barone, un gran peccato
     Che lo ardir tuo e il fior de gagliardia,
     Quanto ne hai oggi nel campo mostrato,
     Perisse con sì brutta villania;
     Chè tu sei da mia gente intornïato.
     Come tu vedi, non te pôi partire:
     Convienti esser pregione, o ver morire.

        Ma Dio non voglia che cotal diffetto
     Per mi si faccia a un baron sì gagliardo;
     Unde per mio onore io aggio eletto,
     Da poi che ’l giorno de oggi è tanto tardo,
     Che noi veniamo dimane allo effetto,
     Io senza alfana, e tu senza Baiardo;
     Chè la virtute de ogni cavalliero
     Si disaguaglia assai per il destriero.

        Ma con tal patto la battaglia sia,
     Che, stu me occidi o prendime pregione,
     Ciascun chi è preso di tua compagnia,
     O sia vasallo al re Marsilïone,
     Seran lasciati su la fede mia;
     Ma s’io te vinco, io voglio il tuo ronzone.
     O vinca, o perda poi, me abbia a partire,
     Nè più in Ponente mai debba venire.

        Ranaldo già non stette altro a pensare,
     Ma subito rispose: Alto segnore,
     Questa battaglia che debbiamo fare,
     Essere a me non può se non de onore.
     E di prodecia sei sì singulare,
     Che, essendo vinto da tanto valore,
     Non mi serà vergogna cotal sorte,
     Anzi una gloria aver da te la morte.

5. T. Perisce. — 9. MI., Mr. e P. tanto. — 11. MI. per il mio onor; Mr. mio onor. — 22. Mr. e P. vinco, voglio. — 29. MI. e Mr. E di prodecia sei tanto s. ; P. Di prodezza sei tanto s. [p. 92 modifica]

        Quanto alla prima parte, te rispondo
     Che ben te voglio e debbo ringraziare,
     Ma non che già mi trovi tanto al fondo,
     Che da te debba la vita chiamare;
     Perchè, se armato fosse tutto ’l mondo,
     Non potrebbe al partir mio divetare,
     Non che voi tutti; e se forse hai talento
     Farne la prova, io son molto contento.

        Incontinente se ebbeno accordare
     Della battaglia tutto il conveniente:
     Il loco sia nel litto apresso il mare,
     Lontan sei miglia a l’una e l’altra gente.
     Ciascuno al suo talento se può armare
     De arme a diffensa e di spada tagliente;
     Lancia, nè mazza, o dardo non si porta,
     E denno andar soletti e senza scorta.

        Ciascuno è molto bene apparecchiato
     Per domatina alla zuffa venire;
     Ogni vantaggio a mente hanno tornato,
     Le usate offese e l’arte del scrimire.
     Ma prima che alcun de essi venga armato,
     De Angelica vi voglio alquanto dire;
     La qual per arte, come ebbe a contare,
     Dentro al Cataio se fece portare.

        Benchè lontana sia la giovanetta,
     Non può Ranaldo levarse del core.
     Come cerva ferita di saetta,
     Che al lungo tempo accresce il suo dolore,
     E quanto il corso più veloce affretta,
     Più sangue perde ed ha pena maggiore:
     Così ognor cresce alla donzella il caldo,
     Anzi il foco nel cor, che ha per Ranaldo.

6. Mr. omm. mio; P. Non mi potrebbe 'l partir d. — 23. T., MI. e Mr. hebbe. — 32. Mr. omm. il. [p. 93 modifica]

        E non poteva la notte dormire,
     Tanto la strengie il pensiero amoroso;
     E se pur, vinta dal longo martire,
     Pigliava al far del giorno alcun riposo,
     Sempre, sognando, stava in quel desire.
     Ranaldo gli parea sempre crucioso
     Fuggir, sì come fece in quella fiata
     Che fu da lui nel bosco abandonata.

        Essa tenea la faccia in ver Ponente,
     E, sospirando e piangendo, talora
     Diceva: In quella parte, in quella gente
     Quel crudel tanto bello ora dimora.
     Ahi lassa! Lui di me cura nïente!
     E questo è sol la doglia che me accora:
     Colui, che di durezza un sasso pare,
     Contra a mia voglia a me il conviene amare.

        Io aggio fatto ormai l’ultima prova
     Di ciò che pôn gli incanti e le parole,
     E l’erbe strane ho còlto a luna nova,
     E le radice, quando è oscuro il sole;
     Nè trovo che dal petto me rimova
     Questa pena crudel, che al cor mi dole,
     Erba, nè incanto, o pietra precïosa:
     Nulla mi val; chè amor vince ogni cosa.

        Perchè non venne lui sopra a quel prato,
     Là dove io presi il suo saggio cugino?
     Che certamente io non avria cridato.
     Ora è pregione adesso quel meschino.
     Ma incontinente serà liberato,
     Acciò che quello ingrato peregrino
     Cognosca in tutto la bontate mia,
     Che dà tal merto a sua discortesia."

1. P. Egli di me non cura n. [p. 94 modifica]

        E detto questo se ne andò nel mare,
     Là dove Malagise era pregione;
     Con l’arte sua là giù si fe’ portare,
     Chè andarvi ad altra via non c’è ragione.
     Malagise ode l’uscio disserrare,
     E ben si crede in ferma opinïone,
     Che sia il demonio, per farlo morire,
     Perchè a quel fondo altrui non suol mai gire.

        Gionta che fu là dentro la donzella,
     Di farlo portar sopra ben si spaccia;
     E poi che l’ebbe entro una sala bella,
     La catena li sciolse dalle braccia;
     E nulla per ancora gli favella,
     Ma ceppi e ferri dai piè li dislaccia.
     Come fu sciolto, li disse: Barone,
     Tu sei mo franco, ed ora eri prigione.

        Sì che, volendo una cortesia fare
     A me, che fuor te trassi di quel fondo,
     Da morte a vita mi pôi ritornare,
     Se qua mi meni il tuo cugin iocondo:
     Dico Ranaldo, che mi fa penare.
     A te la mia gran doglia non nascondo:
     Penar fa me de amore in sì gran foco,
     Che giorni e notte mai non trovo loco.

        Se me prometti nel tuo sacramento
     Far qua Ranaldo inanti a me venire,
     Io te farò de una cosa contento,
     Che forse de altra non hai più desire:
     Darotti il libro tuo, se n’hai talento;
     Ma guarda, stu prometti, non mentire;
     Perchè te aviso che uno annello ho in mano,
     Che farà sempre ogni tuo incanto vano.

3. T. e MI. fa. — 13. P. pur. — 22. P. secondo. — 23. MI. fame; P. fammi. — 24. P. giorno. [p. 95 modifica]

        Malagise non fa troppo parole,
     Ma come a quella piace, così giura;
     Nè scia come Ranaldo non ne vole,
     Anzi crede menarlo alla sicura.
     Già se chinava allo occidente il sole;
     Ma, come gionta fu la notte scura,
     Malagise un demonio ha tolto sotto,
     E via per l’aria se ne va di botto.

        Quel demonio li parla tutta fiata
     (E va volando per la notte bruna)
     Della gente che in Spagna era arivata,
     E come Ricciardetto ebbe fortuna,
     E la battaglia come era ordinata.
     Di ciò che è fatto, non gli è cosa alcuna
     Che quel demonio non la sappia dire;
     Anzi più dice, perchè scia mentire.

        E già son gionti presso a Barcellona
     (Forse restava un’ora a farse giorno),
     E Malagise il demonio abandona.
     E, per quei paviglion guardando intorno,
     Dove sia de Ranaldo la persona,
     E’ dormir vede il cavallier adorno;
     Nella trabacca sua stava colcato.
     Malagise entra, ed ebbelo svegliato.

        Quando Ranaldo vide la sua faccia,
     Non fu nella sua vita sì contento;
     Del trapontin se leva e quello abbraccia,
     E delle volte lo baciò da cento.
     Disse a lui Malagise: Ora te spaccia,
     Ch’io son venuto sotto a sacramento.
     Piacendo a te, me pôi deliberare:
     Non te piacendo, in pregion vo’ tornare.

10. MI. E via. — 22. P. E. [p. 96 modifica]

        Non aver nella mente alcun sospetto
     Ch’io voglia che tu facci un gran periglio;
     Con una fanciulletta andrai nel letto,
     Netta come ambro, e bianca come un giglio.
     Me trai di noia, e te poni in diletto.
     Quella fanciulla dal viso vermiglio
     È tal, che tu nol pensaresti mai:
     Angelica è colei di cui parlai. -

        Quando Ranaldo ha nominare inteso,
     Colei che tanto odiava nel suo core,
     Dentro dal petto è di alta doglia acceso,
     E tutto in viso li cangiò il colore.
     Ora un partito, ora un altro n’ha preso
     Di far risposta, e non la scia dir fuore;
     Or la vol fare, ora la vol differire;
     Ma nello effetto e’ non scia che si dire.

        Al fin, come persona valorosa,
     Che in zanze false non se scia coprire,
     Disse: Odi, Malagise: ogni altra cosa
     (E non ne trago il mio dover morire),
     Ogni fortuna dura e spaventosa,
     Ogni doglia, ogni affanno vo’ soffrire,
     Ogni periglio, per te liberare:
     Dove Angelica sia, non voglio andare.

        E Malagise tal risposta odìa,
     Qual già non aspettava in veritate.
     Prega Ranaldo quanto più sapìa,
     Non per merito alcun, ma per pietate,
     Che nol ritorna in quella pregionia.
     Or gli ricorda la sanguinitate,
     Or le proferte fatte alcuna volta;
     Nulla gli val, Ranaldo non l’ascolta.

2. T., MI. e Mr. voglio. — 4. P. ambra. — 8. T. collei; e cosi al v. 10. — 12. P. il viso. — 13. P. Ora un partito ed or un altro ha. [p. 97 modifica]

        Ma poi che un pezzo indarno ha predicato,
     Disse: Vedi, Ranaldo, e’ si suol dire,
     Ch’altro piacer non s’ha de l’omo ingrato
     Se non buttarli in occhio il ben servire.
     Quasi per te ne l’inferno m’ho dato:
     Tu me vôi far nella pregion morire.
     Guârti da me; ch’io ti farò uno inganno,
     Che ti farà vergogna, e forse danno. -

        E, così detto, avante a lui se tolse.
     Subitamente se fo dispartito;
     E come fo nel loco dove volse
     (Già caminando avea preso il partito),
     Il suo libretto subito disciolse.
     Chiama i demonî il negromante ardito;
     Draginazo e Falsetta trà da banda:
     Agli altri il dipartir presto comanda.

        Falsetta fa adobar com’uno araldo,
     Il qual serviva al re Marsilïone.
     L’insegna avea di Spagna quel ribaldo,
     La cotta d’arme, e in mano il suo bastone.
     Va messagiero a nome de Ranaldo,
     E gionse di Gradasso al paviglione,
     E dice a lui che a l’ora de la nona
     Avrà Ranaldo in campo sua persona.

        Gradasso lieto accetta quello invito,
     E d’una coppa d’ôr l’ebbe donato.
     Subito quel demonio è dipartito,
     E tutto da quel che era, è tramutato;
     Le annelle ha ne l’orecchie, e non in dito,
     E molto drappo al capo ha inviluppato,
     La veste lunga e d’ôr tutta vergata;
     E di Gradasso porta l’ambasciata.

10. P. Subitamente, e. — 16. P. tosto. — 17. T., MI. e Mr. fa dobar.


Boiardo. Orlando innamorato. Voi. I.

7 [p. 98 modifica]

        Proprio parea di Persia uno almansore,
     Con la spada di legno e col gran corno;
     E qui, davanti a ciascadun segnore,
     Giura che all’ora primera del giorno,
     Senza nïuna scusa e senza errore,
     Serà nel campo il suo segnore adorno,
     Solo ed armato, come fo promesso;
     E ciò dice a Ranaldo per espresso.

        In molta fretta se è Ranaldo armato;
     E' suoi gli sono intorno d’ogni banda.
     Da parte Ricciardetto ebbe chiamato,
     Il suo Baiardo assai gli racomanda.
     O sì, o no, dicea, che sia tornato,
     Io spero in Dio, che la vittoria manda;
     Ma se altro piace a quel Segnor soprano,
     Tu la sua gente torna a Carlo Mano.

        Fin che sei vivo debbilo obedire,
     Nè guardar che facesse in altro modo.
     Or ira, or sdegno m’han fatto fallire;
     Ma chi dà calci contra a mur sì sodo,
     Non fa le pietre, ma il suo piè stordire.
     A quel segnor, dignissimo di lodo,
     Che non ebbe al fallir mio mai riguardo,
     S’io son occiso, lascio il mio Baiardo. -

         Molte altre cose ancora gli dicia;
     Forte piangendo, in bocca l’ha baciato.
     Soletto alla marina poi s’invia;
     A piedi sopra il litto fo arivato.
     Quivi d’intorno alcun non apparia.
     Era un naviglio alla riva attaccato,
     Sopra di quel persona non appare:
     Stassi Ranaldo Gradasso a aspettare.

1. T. almassore. — 12. P. arricomanda. — 18. P. io facessi. [p. 99 modifica]

        Or ecco Draginazo che s’appara;
     Proprio è Gradasso, et ha la sopravesta
     Tutta d’azurro e d’ôr dentro la sbara,
     E la corona d’ôr sopra la testa,
     L’armi forbite e la gran simitara,
     E ’l bianco corno, che giamai non resta,
     E per cimero una bandiera bianca;
     In summa di quel re nulla gli manca.

        Questo demonio ne vene sul campo:
     Il passeggiare ha proprio di Gradasso;
     Ben dadovero par ch’el butti vampo.
     La simitara trasse con fraccasso.
     Ranaldo, che non vole avere inciampo,
     Sta su l’aviso e tiene il brando basso;
     Ma Draginazo con molta tempesta
     Li calla un colpo al dritto della testa.

        Ranaldo ebbe quel colpo a riparare:
     D’un gran riverso gli tira alla cossa.
     Or cominciano e colpi a radoppiare;
     A l’un e l’altro l’animo s’ingrossa.
     Mo comincia Ranaldo a soffïare,
     E vol mostrare a un punto la sua possa:
     Il scudo che avea in braccio getta a terra,
     La sua Fusberta ad ambe mane afferra.

        Così crucioso, con la mente altiera,
     Sopra del colpo tutto se abandona.
     Per terra va la candida bandiera;
     Calla Fusberta sopra alla corona,
     E la barbuta gietta tutta intiera.
     Nel scudo d’osso il gran colpo risuona,
     E dalla cima al fondo lo disserra;
     Mette Fusberta un palmo sotto terra.

1. T. Darginazo o cosi al v. 15. — 11. T. da dovere; Mr. da dover. — 21. P. Or mo. [p. 100 modifica]

        Ben prese il tempo il demonio scaltrito:
     Volta le spalle, e comincia a fuggire.
     Crede Ranaldo averlo sbigotito,
     E de allegrezza sè non può soffrire.
     Quel maledetto al mar se n’è fuggito;
     Dietro Ranaldo se ’l mette a seguire,
     Dicendo: Aspetta un poco, re gagliardo:
     Chi fugge, non cavalca il mio Baiardo.

         Or debbe far un re sì fatta prova?
     Non te vergogni le spalle voltare?
     Torna nel campo e Baiardo ritrova:
     La meglior bestia non puoi cavalcare.
     Ben è guarnito et ha la sella nova,
     E pur ier sira lo feci ferrare.
     Vien, te lo piglia: a che mi tieni a bada?
     Eccolo quivi, in ponta a questa spada.

         Ma quel demonio nïente l’aspetta,
     Anzi pariva dal vento portato.
     Passa ne l’acqua, e pare una saetta,
     E sopra quel naviglio fo montato.
     Ranaldo incontinente in mar se gietta,
     E poi che sopra al legno fo arivato,
     Vede il nemico, e un gran colpo gli mena:
     Quel per la poppa salta alla carena.

        Ranaldo ognior più drieto se gl’incora,
     E con Fusberta giù pur l’ha seguìto.
     Quel sempre fuggie, e n’esce per la prora.
     Era ’l naviglio da terra partito,
     Nè pur Ranaldo se n’avede ancora,
     Tanto è dietro al nemico invellenito;
     Ed è dentro nel mar già sette miglia,
     Quando disparve quella meraviglia.

7. MI. e Mr. o re. — 17. P. niente non. — 20. MI. a quel n. — 24. T. cathena. — 30. T. invilenito; P. incrudelito. [p. 101 modifica]

        Quello andò in fumo. Or non me domandate
     Se meraviglia Ranaldo se dona.
     Tutte le parte del legno ha cercate:
     Sopra al naviglio più non è persona.
     La vella è piena, e le sarte tirate;
     Camina ad alto e la terra abandona.
     Ranaldo sta soletto sopra al legno:
     Oh quanto se lamenta il baron degno!

       Ah Dio del cel, dicea, per qual peccato,
     M’hai tu mandato cotanta sciagura?
     Ben mi confesso che molto ho fallato,
     Ma questa penitenzia è troppo dura.
     Io son sempre in eterno vergognato,
     Chè certo la mia mente è ben sicura
     Che, racontando quel che me è accaduto,
     Io dirò il vero, e non serà creduto.

        La sua gente mi dette il mio segnore,
     E quasi il stato suo mi pose in mano:
     Io, vil, codardo, falso, traditore,
     Gli lascio in terra e nel mar me allontano;
     Ed or mi par d’odir l’alto romore
     Della gran gente del popol pagano;
     Parmi de’ miei compagni odir le strida,
     Veder parmi l’Alfrera che gli occida.

        Ahi Ricciardetto mio, dove ti lasso
     Sì giovanetto, tra cotanta gente?
     E voi, che pregion seti di Gradasso,
     Guicciardo, Ivone, Alardo mio valente?
     Or foss’io stato della vita casso,
     Quando in Spagna passai primeramente!
     Gagliardo fui tenuto e d’arme experto:
     Questa vergogna ha l’onor mio coperto.

[p. 102 modifica]

        Io me ne vado; or chi farà mia scusa,
     Quando serò de codardia appellato?
     Chi non sta al paragon, sè stesso accusa:
     Più non son cavallier, ma riprovato.
     Or foss’io adesso il figliol de Lanfusa,
     E per lui nel suo loco impregionato!
     Per lui dovessi in tormento morire!
     Ch’io non ne sentirei mità martìre.

        Che se dirà di me nella gran corte,
     Quando serà sentito il fatto in Franza?
     Quanto Mongrana se dolerà forte
     Che il sangue suo commetta tal mancanza!
     Come triomfaranno in su le porte
     Gaino con tutta casa di Maganza!
     Ahimè! Già puote' dirli traditore:
     Parlar non posso più; son senza onore."

        Così diceva quel baron pregiato,
     Ed altro ancora nel suo lamentare;
     E ben tre volte fu deliberato
     Con la sua spada sè stesso passare;
     E ben tre volte, come disperato,
     Come era armato, gettarse nel mare:
     Sempre il timor de l’anima e lo inferno
     Li vetò far di sè quel mal governo.

        La nave tutta fiata via camina,
     E fuor del stretto è già trecento miglia!
     Non va il delfino per l’onda marina,
     Quanto va questo legno a meraviglia.
     A man sinistra la prora se inchina,
     Volto ha la poppa al vento di Sibiglia;
     Nè così stette volta, e in uno istante
     Tutta se è volta contra di levante.

1. Mr. che. — 30. P. Volta a. — 32. MI. e Mr. se volta incontra, P. si volta. [p. 103 modifica]

        Fornita era la nave da ogni banda,
     Eccetto che persona non li appare,
     Di pane e vino ed ottima vivanda.
     Ranaldo ha poca voglia di mangiare:
     In genocchione a Dio si racomanda;
     E così stando, se vede arivare
     Ad un giardin, dove è un palagio adorno;
     Il mare ha quel giardin d’intorno intorno.

        Or qui lasciar lo voglio nel giardino,
     Che sentirete poi mirabil cosa,
     E tornar voglio a Orlando paladino,
     Qual, come io dissi, con mente amorosa
     Verso Levante ha preso il suo camino;
     Giorno nè notte mai non se riposa,
     Sol per cercare Angelica la bella,
     Nè trova chi di lei sappia novella.

        Il fiume della Tana avea passato,
     Ed è soletto il franco cavalliero.
     In tutto il giorno alcun non ha trovato:
     Presso alla sera riscontra un palmiero.
     Vecchio era assai e molto adolorato,
     Cridando: Oh caso dispietato e fiero!
     Chi m’ha tolto il mio bene e ’l mio desio?
     Figliol mio dolce, te acomando a Dio!

        Se Dio te aiute, dimme, peregrino,
     Quella cagion che te fa lamentare.
     Così diceva Orlando; e quel meschino
     Comincia il pianto forte a radoppiare,
     Dicendo: Lasso! misero! tapino!
     Mala ventura ebbi oggi ad incontrare. -
     Orlando di pregarlo non vien meno
     Che il fatto gli raconti tutto a pieno.

14. Mr. mai se. — 24. T., Ml. e P. dolce, io. — 25. Ml. e Mr. aiuta; P. aiuti. — 27. Mr. Orl. a quel. — 30. T. e Ml. riscontrare. [p. 104 modifica]

        Dirotti la cagion perch’io me doglio, -
     Rispose lui, da poi che il vôi sapere.
     Qui drieto a due miglia è uno alto scoglio,
     Che a la tua vista pô chiaro apparere;
     Non a me, che non vedo come io soglio,
     Per pianger molto e per molti anni avere.
     La ripa di quel scoglio è d’erba priva,
     E di colore assembra a fiamma viva.

        Alla sua cima una voce risuona:
     Non se ode al mondo la più spaventosa;
     Ma già non te so dir ciò che ragiona.
     Corre di sotto una acqua furïosa,
     Che cingie il scoglio a guisa di corona.
     Un ponte vi è di pietra tenebrosa,
     Con una porta che assembra a diamante;
     E stavvi sopra armato un gran gigante.

        Un giovanetto mio figliuolo ed io
     Quivi dapresso passavam pur ora;
     E quel gigante maledetto e rio,
     Quasi dir posso ch’io nol vidi ancora,
     Sì de nascoso prese il figliol mio;
     Hassel portato, e credo che il divora.
     La cagion de che io piango, or saverai;
     Per mio consiglio indietro tornarai.

        Pensossi un poco, e poi rispose Orlando:
     Io voglio ad ogni modo avanti andare.
     Disse il palmiero: A Dio ti racomando,
     Tu non debbi aver voglia di campare.
     Ma credi a me, che il ver te dico: quando
     Avrai quel fier gigante a remirare,
     Che tanto è lungo, e sì membruto e grosso,
     Pel non avrai che non ti tremi adosso. -

5. P. veggio, come. — 23. T. saputa hai; Ml. e P. saputo hai. — 26. P. innanti. — 32. Mr. trema. [p. 105 modifica]

        Risene Orlando, e preselo a pregare
     Che per Dio l’abbia un poco ivi aspettato,
     E se nol vede presto ritornare,
     Via se ne vada senza altro combiato.
     Il termine de un’ora li ebbe a dare,
     Poi verso il scoglio rosso se n’è andato.
     Disse il gigante, veggendol venire:
     Cavallier franco, non voler morire.

        Quivi m’ha posto il re di Circasia,
     Perch’io non lasci alcuno oltra passare;
     Chè sopra al scoglio sta una fera ria,
     Anzi un gran mostro se debbe appellare,
     Che a ciascadun che passa in questa via,
     Ciò che dimanda, suole indivinare;
     Ma poi bisogna che anco egli indivina
     Quel che la dice, o che qua giù il roina.

        Orlando del fanciullo adimandone:
     Rispose averlo e volerlo tenire;
     Onde per questo fu la questïone,
     E cominciorno l’un l’altro a ferire.
     Questo ha la spada, e quell’altro il bastone:
     Ad un ad un non voglio i colpi dire.
     Al fine Orlando tanto l’ha percosso,
     Che quel si rese e disse: Più non posso.

        Così riscosse Orlando il giovanetto,
     E ritornollo al padre lacrimoso.
     Trasse il palmiero un drappo bianco e netto,
     Che nella tasca tenïa nascoso.
     Di questo fuor sviluppa un bel libretto,
     Coperto ad oro e smalto luminoso;
     Poi volto a Orlando disse: Sir compiuto,
     Sempre in mia vita ti serò tenuto.

1. T. Risese ; Ml. Rise. — 11. P. su lo. — 16. P. ch'ella. [p. 106 modifica]

        E s’io volessi te remeritare,
     Non bastarebbe mia possanza umana.
     Questo libretto voglilo accettare,
     Chè è de virtù mirabile e soprana,
     Perchè ogni dubbioso ragionare
     Su queste carte si dichiara e spiana.
     E, donatogli il libro, disse: Addio!
     E molto allegro da lui se partio.

        Orlando s’arestò col libro in mano,
     E fra sè stesso comincia a pensare;
     Mirando al scoglio che è cotanto altano,
     Ad ogni modo in cima vol montare,
     E vol veder quel mostro tanto istrano,
     Che ogni dimanda sapea indivinare.
     E sol per questo volea far la prova:
     Per saper dove Angelica si trova.

        Passa nel ponte con vista sicura,
     Chè già non lo divieta quel gigante.
     Egli ha provata Durindana dura,
     Dàgli la strata: Orlando passa avante.
     Per una tomba tenebrosa e oscura
     Monta alla cima quel baron aitante,
     Dove, entro a un sasso rotto per traverso,
     Stava quel monstro orribile e diverso.

        Avea crin d’oro e la faccia ridente,
     Come donzella, e petto di lïone;
     Ma in bocca avea di lupo ogni suo dente,
     Le braccie d’orso e branche di grifone,
     E busto e corpo e coda di serpente;
     L’ale depinte avea come pavone.
     Sempre battendo la coda lavora,
     Con essa e' sassi e il forte monte fora.

27. Ml. omm. suo. — 29. P. Il busto. [p. 107 modifica]

        Quando quel mostro vede il cavalliero,
     Distese l’ale e la coda coperse:
     Altro che il viso non mostrava intiero.
     La pietra sotto lui tutta se aperse.
     Orlando disse a lui con viso fiero:
     Tra le provenze e le lingue diverse,
     Dal freddo al caldo e da sira a l’aurora,
     Dimmi ove adesso Angelica dimora.

        Dolce parlando, la maligna fiera
     Così risponde a quel che Orlando chiede:
     Quella per cui tua mente se dispera,
     Presso al Cataio in Albraca si vede.
     Ma tu respondi ancora a mia manera:
     Qual animal passeggia senza piede?
     E poi qual altro al mondo se ritrova,
     Che con quattro, dui, tre de andar se prova?

        Pensa Orlando alla dimanda strana,
     Nè scia di quella punto sviluppare:
     Senza dire altro trasse Durindana.
     Quella comincia intorno a lui volare;
     Or lo ferisce tutta subitana,
     Or lo minaccia e fallo intorno andare,
     Or di coda lo batte, or dello ungione:
     Ben li è mistiero aver sua fatasone.

        Che se non fosse lui stato afatato,
     Come era tutto, il cavalliero eletto,
     Ben cento volte l’arebbe passato,
     D’avanti a dietro, e dalle spalle al petto.
     Quando fu Orlando assai ben regirato,
     L’ira li monta e crescegli il dispetto;
     Adocchia il tempo e, quando quella cala,
     Piglia un gran salto, e gionsela ne l’ala.

1. Ml. vide. — 12. Ml. e Mr. si vede. — 13. T. e Ml. mainera. — 17. P. Ben pensa. — 28. T., Ml. e Mr. Davanti adietro; P. Davanti. [p. 108 modifica]

        Cridando il crudel mostro cade a terra;
     Longe d’intorno fu quel crido odito.
     Le gambe a Orlando con la coda afferra,
     E con le branche il scudo li ha gremito.
     Ma presto fu finita questa guerra,
     Perchè nel ventre Orlando l’ha ferito;
     Poi che de intorno a sè l’ebbe spiccato,
     Giù di quel scoglio lo trabucca al prato.

        Smonta la ripa e prende il suo destriero,
     Forte camina, come inamorato;
     E cavalcando li venne in pensiero
     De ciò che il mostro l’avea dimandato.
     Tornagli a mente il libro del palmiero,
     E fra sè disse: Io fui ben smemorato!
     Senza battaglia potea satisfare.
     Ma così piacque a Dio che avesse andare.

        E guardando nel libro, pone cura
     Quel che disse la fera indivinare;
     Vede il vecchio marino e sua natura,
     Che con l’ale che nota, ha passeggiare;
     Poi vede che l’umana creatura
     In quattro piedi comincia ad andare,
     E poi con duo, quando non va carpone;
     Tre n’ha poi vecchio, contando il bastone.

        Leggendo il libro, gionse a una rivera
     De una acqua negra, orribile e profonda.
     Passar non puote per nulla maniera,
     Chè derupata è l’una e l’altra sponda.
     Lui de trovare il varco pur se spera,
     E, cavalcando il fiume alla seconda,
     Vede un gran ponte e un gigante che guarda:
     Vassene Orlando a lui, chè già non tarda.

8. P. Giù de lo scoglio lo trabocca. — 9. P. a la. — 12. P. gli avea. — 15. T., Ml. e P. io potea. — 20. T.e Mr. nota a pass.; Ml. ha pass. — 28. Ml. e Mr. derrupata, T. deruppata. [p. 109 modifica]

         Come ’l gigante il vide, prese a dire:
     Misero cavallier! Malvagia sorte
     Fu quella che ti fece qui venire.
     Sappi che questo è il Ponte della Morte;
     Nè più di qui ti potresti partire,
     Perchè son strate inviluppate e torte,
     Che pur al fiume te menan d’ogniora:
     Convien che un di noi doi sul ponte mora.

        Questo gigante che guardava il ponte,
     Fu nominato Zambardo il robusto:
     Più de duo piedi avea larga la fronte,
     Ed a proporzïon poi l’altro busto.
     Armato proprio rasembrava un monte,
     E tenea in man di ferro un grosso fusto;
     Dal fusto uscivan poi cinque catene,
     Ciascuna una pallotta in cima tiene:

        Ogni pallotta vinte libbre pesa;
     Da capo a piede è di un serpente armato,
     Di piastre e maglia, a fare ogni diffesa;
     La simitara avea dal manco lato.
     Ma, quel che è peggio, una rete ha distesa,
     Perchè, quando alcun l’abbia contrastato,
     Et abbia ardire e forza a meraviglia,
     Con la rete di ferro al fine il piglia.

        E questa rete non si può vedere,
     Perchè coperta è tutta ne l’arena;
     Lui col piede la scocca a suo piacere,
     E il cavallier con quella al fiume mena.
     Rimedio non si pote a questo avere;
     Qualunche è preso, è morto con gran pena.
     Non sa di questa cosa il franco conte:
     Smonta il destriero e vien dritto in sul ponte.

(6. P. storte. — 16. Mr. balota; Ml. palota. — 17. Ml. palota. — 18. Mr. omm. è. — 24. Ml. In la. — P. fin lo. — 27. Ml. o Mr. con li piedi; P. Ei co' piedi. [p. 110 modifica]

       Il scudo ha in braccio e Durindana in mano,
     Guarda il nemico grande ed aiutante;
     Tanto ne cura il senator romano,
     Quanto quel fusse un piccoletto infante.
     Dura battaglia fu sopra quel piano.....
     Ma in questo canto più non dico avante,
     Chè quello assalto è tanto faticoso,
     Che, avendo a dirlo, anch’io chiedo riposo.